Nicolas Ballario
Leggi i suoi articoliUtilizzo il mezzo più potente per mostrare che cosa succede oggi. Sfrutto un canale, la pubblicità, che mi permette di essere sui giornali e sui muri di tutto il mondo
Oliviero Toscani, milanese classe 1942, con il suo linguaggio ha cambiato la comunicazione moderna. Figlio di Fedele, il primo fotoreporter del «Corriere della Sera», da più di 40 anni vive in Toscana, dove alleva cavalli, produce vino e olio di oliva. Ha studiato fotografia alla Kunstgewerbeschule di Zurigo, ed è stato la forza creativa dietro alcuni dei più noti giornali e marchi al mondo. Ha stravolto il concetto di advertising, introducendo al suo interno temi che fino al suo arrivo sembravano lontani dal mondo della «réclame»: guerra, morte, violenza, sesso, Aids e immigrazione.
Lei è eretico o profeta?
Ereticamente profeta. Ogni profeta è eretico. Perché il profeta è uno che immagina il futuro, dunque per forza eretico perché dice cose nuove, prospetta cambiamenti che forse fanno paura. Queste figure hanno il coraggio di parlare e fanno discutere. Guardi quello che succede oggi: era prevedibile. Io 25 anni fa già tentavo di far capire che qualcosa stava cambiando. Ma già all’epoca lo status quo non voleva vedere...
Si riferisce alla questione migranti?
Sì. Io 25 anni fa già mostravo l’esodo degli albanesi e dicevo che era solo l’inizio. Si ricorda che cosa diceva Bossi all’epoca?
Più o meno...
Be’ allora glielo dico io: diceva di bombardare le navi. E invece ora le statistiche ci dicono che se oggi in Europa ci sono quattro giovani per ogni pensionato, nel 2060 saranno solo due. Quindi se i figli di Bossi avranno una pensione un giorno, sarà perché avremo aperto a quelli che lui voleva bombardare, che portano natalità ed energia.
La fotografia cui lei fa riferimento è quella di una nave carica fino a scoppiare di albanesi, che sbarcarono nel porto di Bari nell’agosto 1991, utilizzata per una campagna Benetton nell’anno successivo.
Il mio lavoro è quello di avere visione. Era chiaro già allora che cosa sarebbe avvenuto oggi. Era prevedibile. Invece abbiamo bisogno della fotografia del bambino annegato sulla spiaggia di Bodrum.
Inutile chiederle se quella fotografia andava pubblicata o no...
Certo che andava pubblicata! È successo, perché nasconderlo? La fotografia è la memoria storica dell’umanità e quell’immagine deve passare alla storia. Quando la mia generazione chiedeva ai propri genitori che cosa stessero facendo durante l’Olocausto, perché non reagissero, la risposta era sempre la stessa: «Non sapevamo che stesse succedendo». Be’ in futuro nessuno di noi potrà dire che «non sapeva», perché queste immagini sono sotto gli occhi di tutti.
Però ormai ogni giorno leggiamo di violenze, morti, guerre. Non bastava? Lo shock estetico è l’unica via per una presa di coscienza?
Gli scrittori possono essere bugiardi. Anche senza malafede, intendiamoci. Ma la scrittura implica un’interpretazione, ogni giornalista racconterà la propria verità. E senza vederla con i nostri occhi la realtà ci sembra lontana. La sensazione è che non ci riguardi direttamente. La fotografia non permette scappatoie. Un bambino morto è un bambino morto, non lascia spazio alla retorica, qualunque sia l’angolazione da cui è stato fotografato. Solo questo ci fa fare i conti con i sensi di colpa, quelli più intimi e personali.
L’accusa che le è stata mossa più spesso è quella di utilizzare i drammi del mondo per scopi commerciali.
È l’esatto contrario: io uso la pubblicità per parlare dei problemi globali. Sono un reporter e ho scelto di utilizzare il mezzo più potente per mostrare che cosa succede oggi. Quanti reportage ci sono che nessuno vede? Oppure che restano nell’esclusiva visione dei lettori di un giornale piuttosto che di un altro? Io invece ho voluto sfruttare un canale che mi permettesse di essere contemporaneamente sui giornali e sui muri di tutto il mondo.
Una strategia che, con l’aggiunta delle polemiche che creava intorno a ogni fotografia, ha certamente funzionato.
Ma no, non c’erano strategie. Io non cercavo le polemiche. Era tutto molto più semplice: mi sono chiesto quale fosse il mezzo più potente e l’ho utilizzato. È inutile fare l’equilibrista sulla ringhiera di casa tua, perché nessuno ti vede. Altra cosa è farlo sul Grand Canyon... Allora diventa interessante. Per me vale la stessa cosa: le fotografie appese alle pareti di casa non mi interessano.
È tutta una questione di pubblico quindi? Qui si mette in discussione tutto il sistema dell’arte.
La grande arte deve essere pubblica. Non credo nell’arte per ricchi, che si comprano i quadri e poi li mettono nel proprio salotto. E non mi piace nemmeno l’arte chiusa nei musei. Ormai ci sono altri mezzi, quel tipo di arte non serve più a niente.
Non vorrà dire che «Guernica» di Picasso o le fucilazioni di Goya non servono a nulla?
Quelle immagini rappresentano il passato. Sono un monito, ma non danno fastidio: hanno un ruolo didattico. Mentre l’arte oggi non può limitarsi a questo, deve essere uno specchio della realtà con la quale dobbiamo confrontarci. Con i mezzi di comunicazione moderni, l’arte diventa obsoleta perché non può superare la realtà.
Stockhausen diceva che l’attacco alle Torri Gemelle è stata la più grande opera d’arte possibile.
Non so se è un’opera d’arte, ma di certo l’arte non potrà mai arrivare a quei livelli di forza. Perché oggi la realtà è più forte di ogni immaginazione. Infatti l’arte come l’abbiamo conosciuta fino a oggi, quella che si attacca alle pareti, è morta. Serve solamente per abbellire le case dei miliardari, come i mobili, i sofà, i tavoli, i bidè e i cessi.
Eppure lei ha frequentato molti dei protagonisti del mercato dell’arte contemporanea. Uno su tutti Andy Warhol. Non è legato alla sua figura?
Sì certo, ma avrei preferito lavorare con Goya (ride, Ndr)! La più grande qualità di Warhol era l’essere un possibilista. Sa perché? Perché era il primo a essere sorpreso dalla sua fama. Credo lo siano tutti i grandi artisti, che non sono mai sicuri del proprio lavoro. Soprattutto le superstar del contemporaneo, che quando hanno successo pensano: «Guarda quanti pirla, che non hanno capito bene cosa volessi fare davvero».
Anche lei è un artista riconosciuto.
Ma no, io non sono un artista.
Sì, invece. E anche lei ha guadagnato molti soldi e viene riconosciuto per strada. Non se lo aspettava questo successo?
Assolutamente no. Mio padre faceva il fotografo e quello che guadagnava non era sufficiente per mantenere la famiglia. Infatti anche mia madre e mia sorella lavoravano. La fotografia più che un’arte è un mestiere, come fare l’artigiano. Io non faccio il fotografo perché mi interessa fare «l’artista».
Sono tanti i fotografi che passeranno alla storia dell’arte come grandi artisti.
Non è il mio caso. La fotografia per me è un mezzo di comunicazione. È come la differenza tra calligrafia e scrittura. Il 90% dei fotografi sono calligrafi, come Cartier-Bresson o Salgado. Scrivono in bianco e nero, con i contrasti, ci mettono ore a fare una stampa... Bene, che continuino a usare la carrozza e i cavalli per fare i loro viaggi. Per quanto mi riguarda, non è questa la fotografia che mi interessa.
Cioè la tecnica non conta nulla, ma solo il messaggio?
Dico che è stupido essere dipendenti dalla tecnica. Però quando dici «Faccio lo scrittore» tutti pensano a un autore, quando invece dici «fotografo» tutti pensano a un tecnico. Non è più cosi. La macchina è come una penna, uno può scrivere una grande opera con la matita o con la Bic. Non è che se usi una Montblanc scriverai una poesia migliore.
Però lei la tecnica la conosce eccome. Ha frequentato una delle scuole d’arte più prestigiose al mondo, e in famiglia i maestri non le mancavano. Non solo suo padre, ma anche sua sorella Marirosa e il marito di lei, Aldo Ballo, un punto di riferimento per la fotografia di design e di architettura di Milano, fin dagli anni ’50.
Aldo e Marirosa sono stati davvero importanti per me. Mia sorella ha 11 anni più di me ed è stata un po’ come una seconda madre. Ecco, sono stato fortunato perché da loro due ho imparato l’importanza del rigore e del dettaglio, della forma oltre che del significato. Mentre da mio padre ho preso l’istinto, il «cosa» fotografare piuttosto che il «come». L’assimilazione della sintesi di queste esperienze è un vantaggio che mi porto dietro da tutta la vita.
Ha paura del futuro?
Come faccio ad avere paura di quello che non conosco? Anzi, ho fiducia che sarà fantastico. Piuttosto ho paura del passato, che possa tornare e che spinga la gente a non avere il coraggio di mettere piede nel futuro. Però spero che le prossime generazioni saranno in grado di affrontarlo, il futuro. E di affrontarlo uniti, senza più discriminazioni. Perché esiste una sola razza: la Razza Umana.
«Razza Umana» è il progetto con il quale sta fotografando nel mondo la gente nelle strade, su fondo bianco, senza differenze. Vuole catalogare ogni essere umano?
No. Voglio sancire il diritto per ogni essere umano ad avere la propria immagine. A essere diverso, a essere un’opera unica e irripetibile, perché ognuno di noi è un’opera d’arte. Tante volte mi sono sentito dire: «Lei non può fotografarmi, perché mi ruba l’anima» e questa cosa mi ha intrigato, perché credo sia vera. Infatti se fotografi per la prima volta qualcuno, si può davvero vedere questa energia umana che esce dagli occhi. Non so se possiamo chiamarla anima, ma qualcosa c’è e ha una potenza incredibile. Per questo guardarci negli occhi ci imbarazza, perché c’è questa forza che non sappiamo gestire e controllare. Non sappiamo se ne abbiamo abbastanza per poter guardare qualcuno dritto negli occhi. Mentre tutti quelli fotografati tantissimo, come le modelle e i modelli, sono svuotati. Non hanno più l’anima, non ti danno niente. Come dire? Mi interessa ciò che è «infotografabile».
Come Emil Cioran, che diceva di avere una sola ambizione: essere all’altezza dell’incurabile.
Io non ho risposte per risolvere l’incurabile, ma mi piace cercarlo. Io non mi nascondo dall’incurabile. Mi piace sottoporlo agli altri, chiedere qual è la cura, affrontarlo anche quando è incognita o quando sembra impossibile.
L’Italia è curabile?
Tutto è curabile. L’architettura e il paesaggio, devastati negli ultimi cinquant’anni, ci dicono che l’Italia si può curare anche distruggendo e ricostruendo. Serve la consapevolezza del fatto che le cure non sono sempre facili. A volte bisogna intervenire in modo drastico e violento, sfruttando possibilità culturali e intellettuali devastanti. Ci sono eventi ed evoluzioni che non si possono fermare, e serve coraggio.
Che cosa rimarrà di Oliviero Toscani?
Non me ne frega niente. Io sono un testimone del mio tempo e voglio vivere quello. Non è che a Cristoforo Colombo interessasse che cosa sarebbe successo all’America: gli interessava scoprirla.
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