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Harold Stevenson (1929-2018). Untitled, 1971

Courtesy Tommaso Calabro

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Harold Stevenson (1929-2018). Untitled, 1971

Courtesy Tommaso Calabro

Tra immanenza e spiritualità. Harold Stevenson e Aldo Sergio insieme a New York

Fino al 31 giugno, la galleria Tommaso Calabro propone due mostre nel suo nuovo spazio nella Grande Mela

Mettere piede nella «giungla di cemento» che è New York – per citare i versi di «Empire State of Mind», uno dei più noti brani musicali ispirati dalla metropoli statunitense – rappresenta sempre un’emozione particolare, sia che la si visiti per la prima volta sia che la si frequenti abitualmente. Viene quindi da chiedersi quali pensieri si affastellassero nella mente del giovane artista Harold Stevenson, nato e cresciuto tra le Grandi Pianure dell’Oklahoma, quando nel 1949, ventenne, giunse nella Grande Mela. Lì avrebbe presto incontrato Andy Warhol – a lui coetaneo e come lui appena trasferitosi sulle rive dell’Hudson –, di cui sarebbe diventato amico e stretto collaboratore, contribuendo, alla metà degli anni ’50, alla realizzazione delle prime mostre in cui vennero esposte opere di Warhol, organizzate presso la Bodley Gallery, nell’Upper East Side.

Sull’opera di un maestro del passato come Harold Stevenson (1929-2018) e di un artista contemporaneo, che per la prima volta si affaccia sul panorama americano, come Aldo Sergio (1982) è incentrata la doppia mostra organizzata da Tommaso Calabro presso il pop-up di 545 W 23rd St, nel cuore di Chelsea (fino al 31 maggio), in concomitanza con importanti fiere internazionali come Frieze e Tefaf.  Quella di New York è la seconda esposizione dedicata da Calabro – la precedente fu ospitata nel 2024 nella sede veneziana della sua galleria, divenendo la prima monografica italiana mai dedicata al pittore del Midwest –  ad Harold Stevenson che, oltre a Warhol, ebbe modo di frequentare i maggiori esponenti della cultura d’avanguardia americana del secondo dopoguerra – da Jackson Pollock a Jasper Johns, da Cy Twombly a Robert Indiana, da Robert Rauschenberg a Ellsworth Kelly –, ma che rispetto a nomi di questo calibro gode oggi di minor fama. 

A fare la fortuna di Stevenson, oltre a Peggy Guggenheim – incontrata a Venezia, dove era stato invitato a esporre dalla curatrice Iris Clert, sua fervente sostenitrice –, fu Alexander Iolas, che a Stevenson dedicò numerose mostre nelle sue gallerie negli Stati Uniti e in Europa. Calabro scoprì l’opera di Stevenson nel 2020, mentre preparava l’esposizione «Casa Iolas. Citofonare Vezzoli», con cui, a Milano, ricreò l’atmosfera della leggendaria casa ateniese del gallerista greco. In particolare, si imbatté in una fotografia che ritraeva «Altar of Peace» – tra i dipinti più iconici di Stevenson esposti da Iolas a New York nel 1973 e oggi nuovamente visibile tra le opere presentate a Chelsea – posto in una stanza della villa, a fianco di una scultura egizia e di capolavori di Fontana, Paul Thek, Takis e Magritte. 
 

Harold Stevenson. Altar of Peace, 1972. Installation view, Tommaso Calabro NY. Photo Alexa Hoyer. Courtesy Tommaso Calabro

Aldo Sergio (b. 1982). Lighter with Flag Prayer, 2024. Oil on paper applied on board 9 1/2 x 7 7/8 in. (24 x 20 cm.). Courtesy the artist and Tommaso Calabro

A New York, Tommaso Calabro presenta oggi una selezione di dipinti e opere su carta eseguiti da Stevenson tra la fine degli anni ‘50 e gli anni ‘70. In essi domina la figura maschile nuda, accostata ad archetipi del mondo classico come colonne, capitelli, busti e teste. Oltre al monumentale «Altar of Peace» (1972) – tragica riflessione sugli orrori della guerra del Vietnam in cui Stevenson traccia parallelismi tra la brutalità dei conflitti di ieri e di oggi – sono presenti in mostra opere che enfatizzano specifiche parti del corpo, sia umane che scultoree, in un costante dialogo tra carne viva e fredda pietra, dal cui confronto scaturisce un’insolita – e a tratti surreale – tensione erotica: come in «Column» (1965), dove una poderosa colonna greca, posta tra due gambe, assume evidenti significati fallici. La dimensione teatrale del lavoro di Stevenson viene sottolineata dall’allestimento dello spazio espositivo, curato da Filippo Bisagni, che pone le opere all'interno di un layout grafico che tratteggia, in chiave stilizzata, forme geometriche ed elementi iconografici coerenti con il vivido immaginario del pittore americano.

«American Prayers» è invece il titolo della prima mostra di Aldo Sergio negli Stati Uniti, prosecuzione ideale della personale organizzata nella sede milanese della galleria Tommaso Calabro nell’estate del 2024. In mostra a New York una selezione di opere della serie «Prayers», tra le più rappresentative dell’artista salernitano: si tratta di dipinti a olio di piccolo formato, quasi delle miniature, in cui oggetti, in parte legati alla memoria dell’artista e in parte meticolosamente scelti tra una miriade di altre piccole cose del quotidiano, vengono riprodotti in scala reale su sfondo neutro. In questo corpo di lavori Sergio indaga la potenzialità animistica, quasi sacra, di oggetti che diventano amuleti pregni di energie e poteri, ma anche la necessità dell’uomo di attribuire a ciò che lo circonda un valore che vada oltre la semplice funzione. Per il suo debutto americano, Sergio arricchisce la serie di nuove iconografie ispirate al viaggio in America: un accendino con la bandiera statunitense, una ciambella glassata, un biscotto della fortuna, una palla da baseball, una spugnetta per i piatti e perfino dei cavi di ricarica intrecciati tra loro assumono così una dimensione totemica – che suggerisce gli universi di significato nascosti dietro soggetti solo apparentemente banali e trascurabili –, amplificata dall’aureola scarlatta che ognuno dei lavori di Sergio proietta sulla parete, frutto della vernice rossa stesa sul retro della cornice delle opere.

Matteo Cocci, 15 maggio 2025 | © Riproduzione riservata

Tra immanenza e spiritualità. Harold Stevenson e Aldo Sergio insieme a New York | Matteo Cocci

Tra immanenza e spiritualità. Harold Stevenson e Aldo Sergio insieme a New York | Matteo Cocci