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Fabrizio Lemme
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Il capriccio è un genere ricorrente nell’arte
Nell’ambito della pittura di genere, contrapposta alla pittura di storia, i capricci architettonici acquistano una loro autonomia, se non vado errato, a partire da Viviano Codazzi (Bergamo, 1604-Roma, 1670), pittore lombardo operoso a Roma, a Napoli e ancora a Roma che ebbe una bottega assai fiorente, con largo seguito di seguaci e imitatori a partire dal figlio Nicolò. Cito in particolare, a Napoli, Ascanio Luciani, Leonardo Coccorante, Gennaro Greco detto «U Mascacotta»; a Roma, Vicente Giner, Alberto Carlieri, Giovanni Ghisolfi, Domenico Roberti, Alessandro Salucci ecc.
In realtà, il capriccio ha un’origine più remota: se esso significa, letteralmente, ghiribizzo, stravaganza, al punto da far venire «la pelle d’oca» (da qui, «caporiccio» e quindi «capriccio»), a mia conoscenza il primo autore che abbia fatto ricorso a tale «nonsense» è il poeta fiorentino Domenico di Giovanni noto come Burchiello (Firenze, 1404 -Roma, 1449).
Questi, infatti, fu autore di componimenti nella forma dei sonetti caudati: dopo due quartine e due terzine di endecasillabi (in totale, 14 versi), la coda è costituita da una o più strofe, ciascuna composta da un settenario seguito da due endecasillabi (3 versi). La loro caratteristica è che tali componimenti costituiscono una mera accozzaglia di parole, accomunate dalla rima e da immagini che tendono all’osceno da osteria: quella che Natalino Sapegno, in riferimento a Cecco Angiolieri, chiamava «poesia di sfondo», ossia componimento poetico scritto per essere recitato in una bettola, davanti ad amici avvinazzati.
Ve ne trascrivo uno:
«Nominativi fritti e mappamondi
e l’arca di Noè fra duo colonne
cantavan tutti “Kyrieleisonne”
per la ’nfluenza de’ taglier mal tondi.
La luna mi dicea “Ché non rispondi?”.
E io risposi “I’ temo di Giansonne,
però ch’i’ odo che ’l dïaquilonne
è buona cosa a fare i cape’ biondi”.
Et però le testuggine e’ tartufi
m’hanno posto l’assedio alle calcagne,
dicendo: “Noi vogliàn che tu ti stufi”,
e questo sanno tutte le castagne:
perché al dì d’oggi son sì grassi e gufi
c’ognun non vuol mostrar le suo magagne.
E vidi le lasagne
andare a Prato a vedere il sudario,
e ciascuna portava lo ’nventario»
Un’arte del ghiribizzo è anche quella, figurativa, di Giuseppe Arcimboldo (Milano, 1526-Milano, 1593): il pittore è talmente stravagante che crea l’immagine di Erode attraverso l’assemblaggio di piccoli puttini, composti tra loro in modo da simulare il volto del Tetrarca di Galilea, con allusione evidente alla strage degli innocenti che lo ha reso tristemente celebre. Innumerevoli volte Arcimboldo crea personaggi assemblando frutta, ortaggi, pesci, rami secchi ecc., denominandoli, volta a volta, «Ritratto di contadino», «Ritratto di ortolano», «Ritratto di pescatore», «Ritratto di boscaiolo» ecc.
Il suo successo fu immenso, perfino alla corte di Praga, dove Rodolfo II lo colmò di commissioni e onori e come testimoniano anche gli infiniti imitatori che gli sono succeduti.
Viviano Codazzi, come ho detto, inaugura il genere del capriccio architettonico: su sfondi di paesaggio vengono organicamente costruiti templi, castelli, porticati. «C’è del metodo in questa follia», direbbe Polonio. E non si comprende se il pittore abbia voluto sublimare o deridere la composizione architettonica, vista la totale gratuità delle strutture da lui costruite!
Nel Settecento, il capriccio dilaga: artisti sommi, come Piranesi («Le carceri di invenzione»), Tiepolo, Watteau, Guardi e finalmente Francisco Goya, nei capricci esprimono le loro stravaganze ma anche inquietudini e angosce: vi è, nella serie goyesca di incisioni denominate «Los Caprichos», l’immagine, divenuta celeberrima, di un uomo addormentato, con civette e pipistrelli sulla testa e la scritta «Il sogno della ragione produce mostri».
Nella musica preromantica e romantica, Niccolò Paganini chiamò capricci le sue ventiquattro composizioni per violino, che furono poi variate per pianoforte da Franz Liszt. Ancora nel XX secolo, i capricci sono di grande attualità: che cosa è altro l’arte di Marcel Duchamp e dei suoi infiniti seguaci, a partire dall’orinatoio realizzato, nel 1917, per la prima mostra del Dada a Zurigo e denominato «Fontana»? Che cosa, in particolare, la celeberrima opera «La Mariée mise à nu par ses célibataires, même …..», detta anche «Le grand verre», conservata al Museo di Filadelfia, una complessa costruzione di tubi e tubicini che si intersecano tra loro e, probabilmente, nelle intenzioni dell’artista, esprimono le pulsioni sessuali, intese come un meccanismo di ormoni che si intrecciano e si bilanciano tra loro: una trasposizione figurativa de «L’Homme machine», dell’illuminista D’Holbach?
E l’elenco dei ghiribizzi, assunti a materia dell’arte figurativa contemporanea, dopo Marcel Duchamp, potrebbe continuare all’infinito: richiamo, al riguardo, anche il mio articolo di giugno, sul significato attuale di cultura, che identifica quest’ultima in una testimonianza di umanità. Si è arrivati, addirittura (e cito la bellissima ricerca, svolta l’anno scorso al MaXXI da Simonetta Lux), a indagare sul rapporto tra arte e follia. Esperienza non nuova: Alphonse Donatien de Sade, noto come il «divino marchese», durante il periodo nel quale fu internato nel manicomio di Charenton, vicino Parigi, propose ai medici preposti all’ospedale psichiatrico di sperimentare il teatro come «trattamento terapeutico» e scrisse, all’uopo, una pièce teatrale («La persecuzione e l’assassinio di Jean Paul Marat»), che venne recitata dai folli ospiti ed è stata poi ripresa da Peter Weiss (ne è stato tratto, 1967, un film bellissimo, diretto da Peter Brook, che tre anni prima aveva diretto a Londra il lavoro teatrale di Weiss).
L’area del rapporto tra arte e ghiribizzo, arte e follia, è dunque sterminata e sembra dar ragione al luogo comune che vede l’artista come un personaggio borderline nei confronti della società civile, nella quale è inserito. Siamo così passati dalla stravaganza alla follia e, sotto tale profilo, l’argomento non poteva non interessare l’Avvocato dell’arte, chiamato a scrutinare, nell’ambito dell’art. 85 c.p. (capacità di intendere e di volere) anche i confini estremi della responsabilità penale, nei confronti dell’opera e della fatica d’arte.
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