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«Those who Suffer LOVE» (Chi soffre AMA), 2009

Cortesia dell’artista e White Cube. © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025. Foto © Stephen White. Cortesia White Cube

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«Those who Suffer LOVE» (Chi soffre AMA), 2009

Cortesia dell’artista e White Cube. © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025. Foto © Stephen White. Cortesia White Cube

Tracey Emin: «Quando dipingo mi sento da dio»

Gli spazi rinascimentali di Palazzo Strozzi a Firenze ospitano «Sex and Solitude», la più grande mostra mai dedicata in Italia all’artista britannica, qui intervistata dal curatore. Tra le oltre 60 opere esposte, dagli anni Novanta ad oggi, lavori storici ma anche nuove produzioni, realizzate appositamente

Arturo Galansino

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Dal 16 marzo al 20 luglio Palazzo Strozzi presenta «Tracey Emin. Sex and Solitude», la più grande mostra mai dedicata in Italia a una delle artiste britanniche più famose e influenti del panorama contemporaneo. Curata da Arturo Galansino, direttore generale della Fondazione Palazzo Strozzi, la rassegna indaga la poliedrica pratica artistica di Emin (Croydon, Gran Bretagna, 1963), che spazia tra pittura, disegno, film, fotografia, ricamo, scultura e installazioni al neon. Il titolo fa riferimento a due parole chiave, «sesso» e «solitudine», che permeano le oltre 60 opere di un percorso che attraversa diversi momenti della carriera dell’artista, dagli anni Novanta ad oggi. Molte delle opere esposte, incluse anche alcune nuove produzioni specificamente realizzate in occasione della mostra, sono presentate in Italia per la prima volta, come la monumentale scultura in bronzo «I Followed You To The End» (2024), esposta in dialogo con lo spazio rinascimentale del cortile di Palazzo Strozzi, o la storica installazione «Exorcism of the Last Painting I Ever Made» (1996), ricostruita in una sala del Piano Nobile. In queste pagine presentiamo in anteprima la conversazione tra Tracey Emin e Arturo Galansino, che sarà pubblicata nel catalogo che accompagna la mostra fiorentina (Marsilio Arte).

Iniziamo dal titolo della mostra, «Sex and Solitude» (Sesso e solitudine). Nel tuo lavoro sei sempre stata molto esplicita riguardo alla sessualità: dai periodi di intensa attività erotica agli anni di astinenza, passando per il trauma della violenza. Come si è evoluta la tua percezione del sesso nel corso degli anni e come continua a influenzare il tuo lavoro?

Il sesso è sempre stato molto complicato per me. Quando ero giovane, intorno ai 14 o 15 anni, era più che altro un mezzo per andare da qualche parte, per muovermi, esplorare, vedere il mondo attraverso gli altri e sentirli nel profondo. Poi mi resi conto di ricevere molto meno di quanto stessi dando, e questo non mi rendeva felice, così tornai alla castità. Nella mia vita ho attraversato lunghe fasi di astinenza dal sesso, la più lunga è durata circa dieci anni. Credo di stare attraversando un’altra fase simile, ma stavolta è diverso per via di tutte le operazioni che ho subito. Il mio corpo è profondamente segnato da ciò che gli è accaduto. Penso che il corpo abbia una sua memoria: il mio è stato ferito dall’amore, dal sesso, dagli interventi chirurgici, dallo stupro, dalle malattie trasmesse sessualmente e dagli aborti. È come se quella parte di me fosse insensibile ormai, per ragioni sia psicologiche sia fisiche. Oggi per me c’è qualcosa di più importante del sesso: è l’amore, sì, senza dubbio, l’amore è più importante. E la possibilità di avere entrambi contemporaneamente è piuttosto rara, specialmente per me.

Parlando invece dell’idea di solitudine, penso alle diverse forme in cui si manifesta: il senso di abbandono causato dalla perdita, l’isolamento dell’artista che crea, l’introspezione indispensabile per scoprire sé stessi. Qual è il tuo rapporto con la solitudine?

Amo la solitudine. Quando ero giovane, pensavo di essere sola, perché lo ero davvero, e sentivo quella solitudine nel profondo. Non capivo come usare quella sensazione, la percepivo come qualcosa di negativo. Oggi, per me la solitudine è uno dei sentimenti più intensi e meravigliosi. È come comprendere la natura, il tempo, entrare in sintonia con me stessa; essere completa da tutti i punti di vista: mentale, fisico, emotivo. E il momento di solitudine che preferisco è quando dipingo: mentre creo, dipingo, scrivo, penso, mi sento sempre da dio. Senza solitudine poi non riesco a essere creativa, è impossibile. È bello essere circondati dall’affetto delle persone, dall’amicizia e dall’amore, ma per creare ho bisogno di stare sola, di vivere quell’istante di isolamento. Penso sia per questo che soffro di insonnia o almeno dormo in orari stranissimi. Quando mi addormento su un divano o su una poltrona e mi sveglio nel cuore della notte, quello è uno dei miei momenti di solitudine: allora mi sento come se fossi l’unica persona nell’universo e posso pensare a cose a cui normalmente non penserei. Anche lo stare a letto implica un problema, perché il letto è confortevole, mentre la solitudine di cui ho bisogno deve essere come un vento impetuoso, una pioggia battente, un sole che scotta, come camminare nel deserto. La solitudine deve arrivare a questi estremi per funzionare. È lì che ho i pensieri migliori, le idee più brillanti, i momenti più alti di creatività. Ma non deve essere necessariamente una sofferenza. Quando ero più giovane, facevo confusione tra solitudine e isolamento. La solitudine non è isolamento. La solitudine è forza. C’è una differenza enorme tra essere bloccati sulla cresta di una montagna senza poter salire né scendere, e arrivare fino alla vetta, e una volta là guardare giù e provare un senso di conquista. È un’enorme differenza.

Palazzo Strozzi è un luogo intriso di storia. In che modo esporre le tue opere in un contesto del genere influenza il tuo modo di vedere il tuo stesso lavoro? Su un piano più personale, come si è evoluto il tuo rapporto con l’Italia nel corso degli anni, e che tipo di influenza ha esercitato su di te il nostro Paese dal punto di vista artistico e individuale?

Ho esposto parecchie volte in Italia tramite la galleria Lorcan O’Neill che mi rappresenta nel vostro Paese, ma non ho mai partecipato a una mostra in uno spazio istituzionale né a una personale. Per quanto riguarda Palazzo Strozzi, è bellissimo dal punto di vista architettonico e storico, oltre che per la posizione, la disposizione delle sale, tutto. Mi si addice davvero, è fantastico. Sono entusiasta di vedere il mio lavoro in quell’ambiente, oltre che di esporre in uno spazio istituzionale in Italia. A Firenze poi! È incredibile! Una città così profondamente immersa nella storia dell’arte, nella storia tout court. Anche di questo non potrei essere più entusiasta. Io ho un’idea, ce l’ho da molto tempo: evito le mostre allestite in contesti architettonici che non mi fanno sentire bene. La mia priorità è esporre in città, Paesi e Nazioni con cui mi sento in sintonia. E Palazzo Strozzi, per me, ha tutto, sono davvero emozionata.

Tracey Emin, «It didnt stop-I didnt stop» (Non si è fermato-Non mi sono fermata), 2019. Cortesia dell’artista e Xavier Hufkens, Brussels. © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025

La scultura in bronzo a Firenze, in particolare durante il Rinascimento, è un’icona della storia dell’arte. Un esempio per tutti: il Quattrocento fiorentino si inaugurò con il famoso concorso per la decorazione della Porta nord del Battistero, che in un certo senso diede il via al primo Rinascimento. Qualcosa di simile a Ghiberti l’hai fatto anche tu con il recente progetto per le porte in bronzo della National Portrait Gallery. Che impatto ha avuto sulla tua espressione artistica lavorare col bronzo? Quali sfide ti si sono presentate, quali scoperte hai fatto?

Per anni ho desiderato realizzare grandi sculture figurative in bronzo tratte dai miei disegni, ma non sapevo come fare e non intendevo barare: volevo imparare da sola. Poi ho stretto amicizia con Louise Bourgeois, Jerry Gorovoy, Scott Lyon Wall e ho lavorato in una fonderia d’arte di New York, dove ho imparato la tecnica della cera persa, iniziando da zero con minuscole sculture in bronzo. Oggi, a distanza di anni, lavoro con la AB Fine Art Foundry a Londra, realizzando bronzi giganteschi, che amo tanto quanto quelli piccoli. E sono anche molto contenta di essere passata dalle opere minuscole a quelle enormi. Ho imparato tantissimo. È davvero l’unica cosa nuova che ho imparato negli ultimi vent’anni, ed è stato necessario per trovare un modo di andare avanti con il mio lavoro. La storia del bronzo è straordinaria per via dei materiali alchemici coinvolti.

La qualità tattile delle tue sculture, spesso segnate da impronte digitali visibili e altre irregolarità della superficie, evoca un senso di intimità e immediatezza. In opere come quella che hai creato per il nostro cortile, questa caratteristica è una scelta voluta per esprimere qualcosa di specifico o è semplicemente una parte organica del processo creativo?

È decisamente organica, ha a che fare con le mie mani, le mie impronte, il fatto di toccare l’opera. Ma devo essere onesta, c’è anche molta tecnica in termini di levigatura, stratificazione, tanto lavoro duro: ovviamente non faccio tutto da sola, ma posso contare sulla fonderia, su Harry Weller, il direttore del mio studio. È qualcosa di gigantesco che coinvolge molte persone. L’apparente naturalezza e spontaneità del risultato finale ha dell’incredibile, perché te lo assicuro: realizzare un bronzo di quelle dimensioni è difficilissimo. E non puoi sbagliare, perché nessuno vuole ritrovarsi con due tonnellate di bronzo che trova brutte.

Hai creato anche importanti opere d’arte per spazi pubblici. Qual è, secondo te, il ruolo dell’arte pubblica, e che differenza c’è con il realizzare un lavoro per una galleria o un museo?

Quando ero più giovane l’arte pubblica mi faceva infuriare. La trovavo troppo maschile, pretenziosa, spesso poco attraente e un po’ imbarazzante se non estremamente conservatrice. Non riuscivo a capire perché non esistessero opere d’arte pubblica più appaganti dal punto di vista emotivo. Poi ho capito: il fatto è che c’è poco spazio per l’emozione nella sfera pubblica o quantomeno è un sentimento che viene considerato pericoloso. Io comunque volevo provarci, così ho iniziato a fare sculture pubbliche di dimensioni ridotte, come «Roman Standard» (Insegna romana) che è il mio uccellino su un palo ed è molto piccolo. Poi ci sono quelle di Sydney: sessantotto sculture di uccellini posati lungo una strada nel Central Business District. A Folkestone ho installato «Baby Things» (Cose da bambini): sculture di abiti e oggetti per neonati lasciate in diversi luoghi della città. Volevo creare un impatto emotivo con sculture pubbliche che fossero piccole e femminili. Poi ho deciso di fare l’esatto contrario, evitando però di fare il macho e mantenendo un’impronta spiccatamente femminile. Così ora, a Oslo, c’è una mia scultura alta nove metri dal titolo «The Mother» (La madre) che rappresenta essenzialmente mia madre: una donna anziana in ginocchio. Non ho mai visto una scultura pubblica o una statua di una vecchia prima d’ora, quindi penso di aver fatto davvero qualcosa di nuovo e in certo modo sensazionale.

Da studentessa, a Londra, visitavi spesso la National Gallery. Che influenza hanno avuto queste esperienze giovanili sul tuo approccio alla storia dell’arte e sul tuo legame con espressionisti come Munch e Schiele?

Quando frequentavo il Royal College of Art, di solito prendevo un autobus da Elephant and Castle fino a Westminster e da lì con la metro arrivavo a South Kensington. A volte però restavo sull’autobus e scendevo alla National Gallery. Appena entrata, andavo subito al piano di sotto e lì disegnavo le icone o semplicemente mi guardavo intorno e prendevo appunti. Credo di averlo fatto un paio di volte a settimana per due anni, ed è a questo che devo la mia conoscenza della pittura e della storia dell’arte. Tutto quello che sapevo prima di allora era legato all’Espressionismo e all’arte europea di prima della guerra; all’improvviso ero stata catapultata in un altro mondo, avevo capito i classici e le loro idee. Era come un’espansione della mente. Quindi Munch era pre National Gallery mentre la pittura rinascimentale e quella classica sono arrivate attraverso la National Gallery. E le ho imparate da sola, perché non ho mai veramente studiato storia dell’arte, ho solo approfondito l’arte che mi piaceva.

«Naked photos-Life Model Goes Mad I» (Foto di nudo-La modella impazzisce I), 1996. Cortesia dell’artista © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025. Foto © White Cube (Theo Christelis)

Pur non essendo religiosa, attingi spesso a temi cristiani, come crocifissioni e annunciazioni, che occupano un ruolo centrale in questa mostra. Cosa ti attrae in questi motivi, e come li reinterpreti attraverso la tua ottica personale?

Per me il cristianesimo non c’entra, si tratta di storie e simboli che esistevano già molto tempo prima. I concetti di sacrificio e sofferenza ci sono familiari perché tutti nella vita dobbiamo fare scelte e prendere decisioni. Molte di queste immagini sono il riconoscimento di temi universali come la malattia, la morte, l’amore. Tornando alla National Gallery, negli anni del college mi piaceva dare interpretazioni personali di diverse scene sacre: deposizioni, annunciazioni, le nozze di Cana. Volevo realizzare la mia versione di queste opere perché stavo imparando. Ora che sono adulta, comprendo che l’annunciazione, ad esempio, non è la storia di un angelo sceso dal cielo per dire a una donna che è incinta, ma riguarda l’espressione della creatività in un momento iniziale, forse persino al principio del tempo. Possiamo interpretarla come ci pare; se vogliamo vederla nei termini di uno spermatozoo che feconda un ovulo, va bene anche questo. Ma si tratta dell’inizio di qualcosa, il concepimento dell’attimo, ed è qualcosa di incredibilmente bello.

La salvezza è un concetto ricorrente nel tuo lavoro, anche se non intesa in senso religioso. Cosa significa per te «salvezza», e da che cosa (ammesso che qualcosa vi sia) desideri essere salvata?

La salvezza per me è pace. La salvezza è perdono e per essere perdonati la cosa più forte che puoi fare è perdonare. E quando hai davvero perdonato qualcosa o qualcuno... provi un incredibile senso di liberazione. Cresci mille volte. Per me, questa è una delle più grandi sensazioni di salvezza: comprendere e perdonare situazioni, persone, tempo, perdite. Non voglio vivere con il rancore, non voglio vivere con l’odio e la paura. Più di tutto, le cose con cui non voglio vivere sono l’aggressività e la violenza dentro di me. Voglio essere libera da tutto questo. Più sei libera da queste cose, più la vita diventa facile. E più la mia vita diventa facile, più sono felice, il che significa che posso concentrarmi sulle cose che amo davvero, ossia l’arte.

La memoria, sia personale che collettiva, ha un ruolo significativo nel tuo lavoro. Come affronti il processo di tradurre ricordi profondamente intimi in una forma visiva che entri in risonanza con il pubblico? Per te l’arte è un modo per preservare o forse persino riformulare questi ricordi?

Per me è arrivare a una nuova comprensione dei ricordi. Quando avevo quindici anni, vedevo le cose in modo molto diverso da ora. Attraversiamo fasi alterne nella vita e lo stesso vale per i nostri ricordi, che cambiano anche in base alle esperienze. È come la lettura della mano: il palmo della mano cambia man mano che si invecchia, allo stesso modo, col tempo, le esperienze diventano qualcosa di diverso, proprio come le linee delle nostre mani. Lo stesso discorso vale per la memoria e per il modo di percepire le emozioni. Una cosa che vent’anni fa mi aveva turbato nel profondo, magari oggi non mi fa nessun effetto. Oppure al contrario, qualcosa che cinquant’anni fa non aveva suscitato in me alcuna impressione, inizia a emergere in forma di ricordo e di emozione. Molte di queste cose sfuggono al nostro controllo, fanno semplicemente parte del Dna. Sono qualcosa con cui conviviamo, crescono, si espandono, si riducono. È così che fanno i ricordi. Infatti, quando dipingo, quando lavoro, non so mai che cosa accadrà fino a che non ci entro dentro.

Il tuo lavoro si basa spesso su una cruda vulnerabilità, mette a nudo emozioni ed esperienze personali e le espone davanti al mondo. Come si concilia il bisogno di privacy con il desiderio di creare un’arte onesta e d’impatto? Esporre le tue fragilità ha un costo per te?

Esporsi, di per sé, ha un costo. Quando ero più giovane, non avevo limiti e non capivo quando mi spingevo troppo in là. Questo è stato piuttosto negativo per me stessa. Ora mi proteggo, mi prendo molta più cura di me. Quando dipingo, non decido fin dall’inizio quello che metterò nell’opera, ma ci lavoro strada facendo. È quasi come se avessi due Io che collaborano tra loro e lavorano per stabilire quello che posso rivelare o con cui posso confrontarmi, quello che decido di condividere con il mondo, assicurandomi però che non sia troppo dannoso per me. Questo perché sono cresciuta e comprendo molto meglio le situazioni. Così, lavoro sulle cose, imparo, e questo non è dannoso per me, non è qualcosa di estraneo. Si tratta di unire tutte le parti di me. Prendi una cosa semplice come la malattia; combattere contro la morte avrebbe richiesto moltissima energia. Quello che ho fatto, invece, è stato assecondare la situazione, attraversarla, anziché provare paura o odio nei suoi confronti, così sono riuscita a passare dall’altra parte e ho sentito di aver imparato qualcosa.

Hai smesso di dipingere nel 1990, quando sei rimasta incinta, perché l’odore dei colori a olio ti faceva star male. Quella data segna l’inizio di una crisi personale durata sei anni, fino a quando ti sei chiusa in una sala all’interno di una galleria e hai ricominciato. Hai intitolato quell’atto performativo «Exorcism of the Last Painting I Ever Made» (Esorcismo dell’ultimo dipinto che abbia mai fatto) e sono molto contento che siamo riusciti a ricrearlo per la tua mostra a Palazzo Strozzi. Che cosa ti ha spinto ad affrontare quella paura e a riconquistare la pittura come mezzo espressivo? E che cosa ti ha lasciato quell’esperienza?

Il punto è che volevo davvero tornare a dipingere. Dopo l’aborto, non ho più voluto realizzare «dipinti» tanto per farlo, avevo bisogno di catturare un’emozione. Per me, la pittura riguarda l’essenza stessa della creatività, è vicina al divino, è un mondo a parte, è come entrare in un’altra dimensione, un altro spazio, qualcosa che non è umano. Non dipingevo perché ero intrappolata in questo strano senso di colpa e nell’autopunizione derivata dall’aver abortito. Non riuscivo a lasciarmi andare. Ora dipingo con gli acrilici. Ancora non uso la pittura a olio, anche se ora quell’odore mi piace un sacco. Inoltre, sono diventata una maestra nell’uso degli acrilici, quindi perché dovrei farlo? Ho solo due rimpianti riguardo quel progetto. Il primo è perché, inizialmente, avevo pensato di bruciare tutto ciò che avevo creato durante la performance. Se l’avessi fatto, avrei continuato a dipingere spinta dal rimpianto di averlo distrutto e dal desiderio di rivivere quei momenti ancora una volta. L’altro rimpianto è di non aver continuato a dipingere con la stessa intensità di allora fino a molti anni dopo. Ora la pittura è nel mio sangue, fa parte di me, scorre in me tanto quanto il disegno. Ma mi ci è voluto tutto questo tempo per capirlo davvero e per sentirlo fino in fondo.

Nel 1996 hai realizzato «How It Feels» (Come ci si sente), un film sulla tua esperienza dell’aborto. Oggi assistiamo a una ripresa del dibattito su questo tema a livello globale: penso all’abolizione della tutela federale del diritto all’aborto negli Stati Uniti, ma anche alle discussioni in corso in Italia. Che cosa ti ha spinto a realizzare quel film e che cosa pensi del confronto su questo tema che è in atto oggi?

Il tema di «How It Feels» è esattamente quello suggerito dal titolo: che cosa si prova ad avere un aborto. Tutti hanno un’opinione sull’argomento, compresi gli uomini o le persone che non hanno mai abortito. Io ho realizzato un film su com’è stato l’aborto per me. È qualcosa di profondamente personale, parla dei miei sentimenti. Non sto dicendo a nessuno come dovrebbe sentirsi, a che cosa credere, o quale posizione prendere. Non dichiaro nemmeno se sono pro-life o pro-choice, quello che dico è semplicemente: «Ecco come mi sono sentita ad avere un aborto». È un tema che viene affrontato raramente: non si parla di come si sentono le donne, delle ragioni per cui ricorrono all’aborto. Nessuna donna si sveglia la mattina col desiderio di andare ad abortire, è solo che deve farlo, o sente di doverlo fare. Ed è proprio questo il punto che va discusso e affrontato. Questo, e le conseguenze di un aborto. Alcune donne si pentono di averlo fatto. È più difficile pentirsi di avere avuto un figlio, perché quel figlio è lì. Ma alcune donne devono abortire. È l’unica strada che sentono di poter percorrere. Io vedevo davanti a me due sole alternative: suicidarmi o abortire. Che fosse vero o meno, che sarebbe accaduto davvero oppure no, il fatto che lo sentissi con tale forza significava che era pericoloso per me avere un figlio, perché non sarei stata una buona madre. E ciò che stavo affrontando a livello mentale, fisico ed emotivo era qualcosa di estremamente intenso. Non era semplicemente essere incinta e pensare: «Ecco, avrò un bambino». Non è così che l’ho vissuta, non è così che mi sono sentita. Inoltre, in quel momento, non avevo alcun sostegno. Ero completamente sola. Per quanto riguarda le leggi, l’aborto esiste da sempre: lo trovi nella storia degli antichi Romani, dei Greci, degli Egizi. È un argomento che torna costantemente nel dibattito pubblico. Quindi, anche se l’aborto fosse vietato, ciò non impedirebbe che venisse praticato, diventerebbe solo più rischioso e molte donne morirebbero. È una situazione terribile quando una donna mette al mondo un figlio che non dovrebbe avere. Penso a che cosa significhi essere donna oggi. Siamo tornati indietro. Siamo tornati indietro di centinaia e centinaia, migliaia di anni. Non capisco che cosa stia succedendo alla nostra società e perché sia diventata così ingiusta.

Tracey Emin, «Hurt Heart» (Cuore ferito), 2015, Melbourne, Acaf, Collection by Yashian Schauble, Australia. © Tracey Emin. All rights reserved, DACS 2025. Foto © White Cube (George Darrell)

Devo ringraziarti per questa risposta, perché, da uomo, non mi capita spesso di confrontarmi con questo argomento. Quali sono state le reazioni all’epoca e come hanno influito sulla tua percezione dell’impatto dell’opera?

Quando è uscito il film, molti mi hanno accusata di piangermi addosso, di essere narcisista e di voler parlare solo di me stessa. Beh, ora non più, ora capiscono quanto sia importante quel film. L’ho realizzato trent’anni fa, e oggi la gente si rende conto della sua rilevanza, perché il messaggio non è: «Bisogna comportarsi in questo o quest’altro modo». Come dicevo poco fa, io volevo parlare di come si sente una donna dopo un aborto, di come mi sono sentita io. E penso che ora, con quello che sta accadendo in America, le persone stiano iniziando a capire quanto siano importanti le opinioni delle donne su come si sentono.

In una delle tue coperte dei primi anni Duemila, che sono davvero felice di aver incluso nella mostra, si legge: «Non mi aspetto di diventare madre, ma mi aspetto di morire sola». Tua madre è stata una presenza importantissima nella tua vita (tra l’altro, hai scritto che lei stessa aveva contemplato l’idea di abortire quando era incinta di te e di tuo fratello). Puoi dirmi di più del rapporto tra la maternità e l’essere artista?

Mia madre mi amava moltissimo, ma quando rimase incinta non si aspettava di avere due gemelli. Andò ad abortire che era all’incirca al terzo mese, e proprio all’ultimo momento, mentre stavano per farle l’anestesia, cambiò idea, si alzò e se ne andò. Questo mi ha fatto capire quanto mia madre mi volesse e, in un certo senso, anche quanto non mi volesse. Mi ha anche fatto capire quanto volesse rimanere sé stessa, quanto tenesse alla sua indipendenza. Sono sempre stata educata all’indipendenza. Mia madre cominciò a darmi la pillola che avevo quattordici anni per assicurarsi che non rimanessi incinta, e di questo le sarò sempre grata, perché c’erano buone probabilità che accadesse. E in quel caso non so che cosa sarebbe successo a me o alla mia vita. Per quanto riguarda la maternità, non è mai stata una possibilità per me, perché non ho mai incontrato nessuno che volesse avere dei figli con me fino a quando ormai era troppo tardi. In ogni modo, anche quand’ero giovane era chiaro per tutti che non sarei stata la madre migliore del mondo. Comunque ora sono madre, ma di due gatti, e amo esserlo. Prima sono stata la mamma del mio gatto Docket, per vent’anni, e ora ne ho altri due. Posso dire che come madre di gatti sono bravissima, e va bene così.

Molte delle tue opere si ispirano alla letteratura, alla poesia e alla scrittura in generale. Che ruolo ha per te la letteratura nel processo creativo e come decidi quali parole o frasi immortalare con la tua arte?

Per quanto riguarda la letteratura, non ho aperto un libro fino ai diciassette anni. Poi, una volta iniziato, ne leggevo uno a settimana cercando di mettermi in pari coi classici. Tornando al mio aborto, ho smesso di leggere a ventisei anni. In quel periodo trovavo la lettura piuttosto difficile. In un certo senso è come il sesso: leggere mi rende così felice, è una cosa che amo profondamente, eppure ci sono anni in cui semplicemente non riesco a prendere in mano un libro. La letteratura è molto appagante per me, come il cibo: l’adoro ma non mi concedo mai di goderne appieno. Lo stesso vale per la scrittura. Ci sono anni in cui scrivo pochissimo e altri in cui produco mille parole al giorno, tutti i giorni. È così che riesco a mettere insieme dei libri. Non scrivo mai un libro dall’inizio alla fine, piuttosto metto insieme tutto ciò che ho scritto, ed ecco il libro. Dico sempre che quando sarò vecchia e non potrò più muovermi, detterò un libro. Me ne starò a letto e lo detterò a Harry, e il libro uscirà di getto, senza un errore. Così ho qualcosa per cui vale la pena guardare avanti. Per quanto riguarda i titoli e le parole che uso nei miei lavori e nei miei neon, sono importanti e speciali. Per essere una persona che scrive qualcosa praticamente ogni giorno, sono molto selettiva con le parole che scelgo di utilizzare.

Siamo fortunati ad avere in mostra diversi dei tuoi neon. Quanto è importante esprimere questi sentimenti con la luce, anziché scrivere su tela o sulle tue coperte, ad esempio?

Sono cresciuta circondata da neon: erano ovunque a Margate. Oggi lì ne sono rimasti pochi, ma nel resto del mondo sono tantissimi. Io ho iniziato a farli perché volevo vederne di più in giro. E sai com’è, bisogna stare attenti ai propri desideri. Il vero neon contiene gas come argon e neon appunto, che hanno un effetto positivo sull’umore perché irradiano energia. Ecco perché erano usati nei casinò, nei bordelli, nei bar, nei club, eccetera. Il neon è luce ed energia pulsante, è una cosa viva, e questo mi fa sentire bene. Ma un conto è il neon in quanto tale, un altro è usarlo con la scrittura. L’idea è nata grazie a Carl Freedman, il gallerista. Nel 1995 dovevo realizzare un’insegna per il mio museo e Carl mi disse: «Ti piacciono i neon, perché non la fai così?». Perciò ho scritto «The Tracey Emin Museum», e quello è stato il mio primo neon. Ce l’ho ancora: è molto dolce e piuttosto piccolo, ma è stato l’inizio di tutto. Illuminare il proprio nome è un’affermazione di fiducia in sé stessi. Il neon, come oggetto, è semplicemente bello e ti fa sentire bene. Ecco perché li ho fatti e continuo a farli.

Luoghi come Margate e Londra sono stati fondamentali per il tuo lavoro. Quanto influisce l’ambiente sul tuo processo creativo? Esiste un luogo che hai trovato particolarmente stimolante o essenziale per il tuo lavoro?

Sono molto fortunata perché per me è più una questione di stato mentale. Potrei trovarmi nel posto più bello, nello studio migliore, con una luce perfetta e non riuscire a combinare niente perché ho il cervello confuso o perché sono troppo tesa o il mio corpo è in stato di shock. Al contrario, potrei stare seduta al tavolo della cucina e realizzare gli acquerelli migliori della mia vita. Lavorare dipende dal mio stato mentale e da come mi sento. Negli ultimi anni sono riuscita a dipingere in tutti i miei studi (in Francia, a Londra, a Margate) e sono stata molto, molto felice di lavorare ovunque mi trovassi. Di recente ho disegnato in Austria e ho fatto acquerelli in aereo. È tutta una questione di stato mentale, di quello che mi rende felice. In ogni caso, uno dei luoghi che preferisco è il mio studio in Francia, che amo profondamente.

Come artista che è sempre andata oltre i limiti stabiliti, che cosa speri che il tuo lavoro comunichi alle generazioni future? Come vedi la tua eredità nel contesto più ampio della storia dell’arte?

Penso che molti giovani si lascino ispirare da ciò che fa tendenza, dalla moda del momento. Ma con l’arte non è la stessa cosa. L’arte dovrebbe sempre riguardare ciò che è vero per te come individuo, sempre. Dovrebbe essere sincera e nascere da un desiderio genuino di trovare le proprie risposte. Almeno, per me è così. Per molto tempo il mio lavoro è stato assolutamente fuori moda. Ma non m’importava, perché sapevo che era la cosa giusta per me. Anche il modo in cui presenti qualcosa e il contesto in cui lo collochi è davvero importante. Puoi fare l’arte migliore del mondo, ma se la metti nel posto sbagliato, nessuno la vedrà mai.

Arturo Galansino, 16 marzo 2025 | © Riproduzione riservata

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