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Da sinistra, Rachel Bespaloff, Simone Weil e Milada Horáková

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Da sinistra, Rachel Bespaloff, Simone Weil e Milada Horáková

Tre idee consonanti di comunità e democrazia

Le riflessioni di Rachel Bespaloff e Simone Weil sullo scandalo della sofferenza inutile e l’ultima lettera di Milada Horakova alla figlia

Aldo Accardo

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Sono contemporanee, pressoché coetanee: una era nata nel 1895 (e sarebbe morta suicida nel 1949), l’altra era del 1909 (e sarebbe morta, giovanissima, nel 1943, in qualche modo si sarebbe lasciata morire anche lei). Contemporanee perché il centro della loro vita e della loro attività si colloca in quegli anni che dall’avvento al potere del nazismo portano alla seconda guerra mondiale e alla sua conclusione: poco più di un decennio di sconvolgimenti e tragedie. Non hanno occasione di conoscersi, ma le loro vite, i loro destini, le loro riflessioni si incrociano. La più giovane nel 1939 scrive un lungo articolo sull’Iliade, il poema della forza; nel 1943 l’altra, di poco più grande d’età, riflette anche lei sull’Iliade, sulla guerra tra gli uomini, sullo «scandalo della sofferenza inutile» degli uomini, alla ricerca della «solidarietà tra giustizia e gioia su una terra liberata da uomini non asserviti». Intorno a Omero, intorno all’Iliade converge l’attenzione di queste due grandi pensatrici del Novecento: Rachel Bespaloff (1895-1949) e Simone Weil (1909-1943).

In quegli anni di esibizione tracotante e arrogante della forza, nell’epoca che si affaccia in modo corrispondente e simmetrico sull’universo hitleriano e su quello stalinista, dalle due pensatrici scaturisce un comune giudizio sulla violenza e sulla forza. Non è semplicemente (direi «banalmente», se il termine non fosse assolutamente inadeguato a quel momento storico) una condanna, è qualcosa di più: il riconoscimento, la scoperta, lo smascheramento della finitezza, della fragilità, della caducità della forza, di ogni forza. In calce alla sua opera la Bespaloff aveva scritto: «Bisogna riconoscere che il solo personaggio dell’Iliade che finisce per essere odioso e atroce è Achille. Con una sorprendente obiettività, Omero ci mostra i limiti della forza nell’apoteosi dell’eroe della forza. Attraverso la crudeltà, la forza rivela la sua impotenza a essere onnipotente. La crudeltà si esaspera a mano a mano che cresce la coscienza di ciò che è invincibile». Parole profonde, capaci di una proiezione alla quale ci stanno disabituando, assieme da due parti opposte, la rozzezza violenta di una certa destra e il conformismo ipocrita di una certo riformismo. Il nazismo e il comunismo hanno aspirato a costruire regimi oltre la storia: ma, come ci ha ricordato in un sapido articolo di alcuni anni fa Claudio Magris, il nazismo è durato meno di un comune scaldabagno. Non molto diversa, nonostante gulag e muri, la sorte del comunismo sovietico.

In un’icastica e molto efficace ricostruzione del Novecento e delle sue storie, Scipione Guarracino ha raccontato il grande conflitto triangolare tra nazismo (assieme al fascismo), comunismo e democrazia, cominciato verso la fine degli anni Venti e chiuso con la fine della seconda guerra mondiale: ne scaturisce come nazismo e fascismo siano accomunati da una idea di comunità organica (nazione, stirpe, razza) contrapposta furiosamente al liberalismo e alla democrazia. Viceversa l’avversione comunista alla democrazia veniva presentata come provvisoria e interpretata come sforzo per il «superamento» (in senso hegeliano) e non per la distruzione. Sarebbero stati la guerra e il lungo dopoguerra, segnato dalla caduta del muro di Berlino, a definire e chiarire questo scontro complesso e angoscioso per i suoi protagonisti. Un processo avviato nel momento in cui si cominciò a parlare di Europa come comunità.

Ma il prezzo del lungo cammino è stato molto caro: il costo più grande sarebbe stato pagato da quella metà dell’Europa che venne non solo esclusa, ma largamente dimenticata. Dimenticata soprattutto dalla cultura antifascista e democratica. Lo aveva intuito la Weil, quando nel 1943 scriveva: «Non pensiate che avere combattuto il nazismo significhi che abbiamo fatto il nostro dovere: non basta». Con la sua sorprendente e incredibile capacità di comprensione e intuizione, Simone riusciva a scorgere (lei che pure era stata comunista e però aveva molto presto compreso la realtà del regime stalinista) l’orrore dell’altro totalitarismo e la nascente ipocrisia dell’intellettualità occidentale nel rimuovere il problema della cortina di ferro.
Di quella metà dimenticata abbiamo una lacerante testimonianza. Si tratta della lettera scritta alla figlia da Milada Horáková poco prima della morte.

Milada era una giurista cecoslovacca. Aveva combattuto eroicamente contro i nazisti, era stata condannata a morte e rinchiusa in campo di concentramento, da cui venne liberata nel maggio del 1945. Legata al partito socialista, riprese subito l’attività politica, ebbe incarichi fino al colpo di stato comunista del 1948. Nel 1950 fu arrestata con la falsa accusa di spionaggio. Nel processo si difese con coraggio e con dignità, nonostante le torture fisiche e morali alle quali fu sottoposta. I filmati del processo, oggi visibili in rete, ne sono eloquente testimonianza. Venne condannata a morte e impiccata nel carcere di Praga il 27 giugno 1950, nonostante in molti in tutto il mondo, tra i quali, Albert Einstein, Albert Camus, Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre, avessero chiesta la grazia.

Nella lettera alla figlia troviamo una delle più appassionate definizioni di cosa si debba intendere per comunità: «La vita è dura e non coccola nessuno, e ogni volta in cui ti colpisce ti assesta dieci colpi. Abituatici presto, ma non lasciare che ti sconfigga. Decidi di combattere. Abbi coraggio e obiettivi chiari e vincerai sulla vita […] impara da tutti, anche da quelli che non contano! Gira il mondo con occhi aperti, e asolta non solo i tuoi dolori e interessi, ma anche i dolori, gli interessi e i desideri degli altri. Non pensare mai che qualcosa non ti riguardi. No, tutto ti deve interessare, e tu dovresti riflettere su tutto, confrontare, comporre fenomeni individuali. L’uomo non vive nel mondo da solo; in questo c’è una grande felicità, ma anche una tremenda responsabilità. Questo obbligo consiste prima di tutto nel non essere e non agire in maniera esclusiva, ma piuttosto fondendosi con i bisogni e gli obiettivi degli altri. Questo non significa perdersi nella moltitudine, ma piuttosto fondendosi con i bisogni e gli obiettivi degli altri. Questo non significa perdersi nella moltitudine, ma sapere che si è parte del tutto, e per portare il meglio che uno può dare alla comunità. Se farai questo, riuscirai a contribuire agli obiettivi comuni della società umana. Sii più conscia di quanto non sia stata io di un principio: avvicinati a tutto nella vita in maniera costruttiva e diffida di chi dice di no senza necessità. […] organizzare bene la propria scala di valori significa non solo conoscersi bene, essere fermi nell’analisi del proprio carattere, ma principalmente conoscere gli altri, conoscere il più possibile del mondo, il suo passato, presente e futuro sviluppo. Ebbene, in breve: conoscere, capire. Non chiudere le orecchie davanti a nulla e per nessun motivo, nemmeno zittire i pensieri e le opinioni di qualcuno che mi ha pestato i piedi o che mi ha ferito profondamente. Esamina, pensa, critica, si, principalmente critica te stessa, non aver paura di ammettere una verità che hai compreso, anche se avevi proclamato l’opposto fino a un attimo prima; non diventare ostinata sulle tue opinioni, ma quando arrivi a considerare giusta una cosa, allora sii così determinata da combattere e morire per essa. […] La morte non è un male. Solo bisogna evitare la morte graduale, che è ciò che accade quando uno si scopre staccato dalla vera vita degli altri».

Anche la democrazia, proprio la nostra principale difesa contro i totalitarismi e le dittature, anche la democrazia può incrinarsi e corrompersi, quando le sue parole chiave diventano retorica e banalità, quando i suoi valori vengono asserviti e strumentalizzati, quando non hanno alle spalle esperienza, studio, passione, moralità. Sono questi i rischi della democrazia di massa, quando cresce la difficoltà di mantenere alto il profilo e la pratica democratica decade in conformismo e opportunismo, affidandosi a politici chiacchieroni e mediocri, poco attenti, proprio perché incapaci, di avere intelligenza profonda delle cose. Il prossimo anno ricorre il settantesimo anniversario dell’uccisione di Milada: il muro è caduto esattamente trent’anni fa. La nostra comunità europea potrà crescere forte e salda solo se saprà fare i conti con quanto tre donne ci hanno indicato tanti decenni fa.
 

Da sinistra, Rachel Bespaloff, Simone Weil e Milada Horáková

Aldo Accardo, 28 dicembre 2019 | © Riproduzione riservata

Tre idee consonanti di comunità e democrazia | Aldo Accardo

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