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Turismo da morire

«Quando i turisti scoprono che la città che stanno visitando non è altro che una gigantesca struttura fatta per loro  e tutte le attività creative sono scomparse, la città è morta». Il più autorevole dei nostri storici dell’arte a ruota libera: l’ambiguità del «centro storico», le colpe degli architetti, il pericolo della museificazione e del «presentismo»

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Paolo Fizzotti

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Salvatore Settis (Rosarno, 1941) è un archeologo e storico dell’arte di fama internazionale, ma la nostra conversazione non si è concentrata su questa specifica area di conoscenza. Dal 1999 al 2010 è stato direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa, dove nel 1963 si è laureato in Archeologia Classica. Il forte spirito civile di Settis, che lo ha portato fuori dalla ristretta cerchia della scienza, della ricerca e della diffusione della conoscenza, è emerso anche in un altro campo, quello della difesa pubblica del patrimonio culturale. Mentre altri sostenevano la musealizzazione delle testimonianze culturali nelle «città storiche» (un’espressione che oggi è diventata quasi una categoria turistica), Settis ha difeso la correlazione tra patrimonio e ambiente circostante e il ruolo del patrimonio nella salvaguardia dell’«anima» della città, quella caratteristica invisibile senza la quale la città è un guscio vuoto o una desolata terra saccheggiata. In un momento in cui il governo Berlusconi intendeva approvare una legge che, in pratica, permetteva la vendita di palazzi storici italiani al settore privato, svendendo il patrimonio culturale pubblico della nazione (la «Frankfurter Allgemeine Zeitung» usò l’espressione «i talebani di Roma»), Salvatore Settis è stata la voce autorevole delle proteste. Il risultato della sua azione pubblica è stato un libro pubblicato nel 2002 da Einaudi, Italia S.p.A. L’assalto al patrimonio culturale. Dopo questa vittoria, ha continuato la sua lotta con altri mezzi e per altri beni vulnerabili che non solo sono stati contaminati da coloro che hanno responsabilità politiche e amministrative, ma che sono stati anche vittime di poteri pubblici e privati. Il suo libro Se Venezia muore (Einaudi, 2014) segna un altro punto alto del suo impegno civico: è una riflessione sulla condizione attuale delle città storiche, di cui Venezia è il simbolo supremo, assediata da decisioni ignoranti e appelli economici dell’industria turistica. Il suo contributo più recente è stato Architettura e democrazia. Paesaggio, città, diritti civili (Einaudi, 2017): si tratta di una lunga riflessione sulle responsabilità e l’etica dell’architetto, sul paesaggio come «teatro per la democrazia» (in quanto incarna valori collettivi e comunitari) e sui suoi legami indissolubili con il patrimonio storico e artistico. Nel suo precedente Paesaggio Costituzione cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile (Einaudi, 2010), Settis ha utilizzato le prove dei mali che hanno colpito il devastato panorama italiano per delineare la storia dell’etica e della giurisprudenza custodite nella Costituzione, violate dalle moderne pratiche di speculazione immobiliare e dall’assalto ai beni pubblici.

Come storico dell’arte e archeologo, possiamo dire che lei segue il principio di Foucault, secondo cui l’archeologia è l’unica via d’accesso al presente.

La frase si riferisce al senso dell’archeologia come metafora. Direi che l’archeologia come tecnica e l’archeologia come metafora si presuppongono reciprocamente. L’archeologia come tecnica consiste in scavi che interessano i tempi passati. Ma perché lo facciamo? Perché ci interessa il passato: il nostro passato, se scaviamo un sito nella nostra patria; il passato di esseri umani come noi, se scaviamo in Cina. L’archeologia come metafora (usata da Foucault, ma prima di lui da Freud) è significativa perché comporta un problema di relazione tra memoria collettiva e memoria individuale. Parlo di archeologia come una metafora se parlo a nome della comunità. Dovremmo ricordare il nostro passato, mentre viviamo in una società ossessionata dal presente. Penso che questo «presentismo», come lo definisce lo storico francese François Hartog, ci impedisca di pensare al passato, ma ci escluda anche dal futuro. Non siamo in grado di costruire il nostro futuro perché siamo ossessionati dal presente. E sappiamo bene che il presente è complicato e assorbe molte nostre energie. L’archeologia è una tecnica per sfuggire il «presentismo», lavorando sul passato per pensare al futuro. 
 

La radice del moderno concetto di patrimonio culturale si trova in Alois Riegl, direttore del Museo delle arti decorative di Vienna, che scrisse «Il culto moderno dei monumenti» nel 1903. Segue Riegl nel suo concetto di patrimonio culturale?

Credo che Riegl fosse estremamente importante, ma dobbiamo andare molto più indietro. Ho cercato di seguire una prospettiva italiana, poiché i miei primi scritti sull’argomento facevano parte di una controversia contro i Governi italiani che intendevano vendere il nostro patrimonio o ridurre i loro poteri di tutela. Il mio scopo era lavorare a partire da una tradizione italiana molto più antica di quella di Riegl. Potrei citare due esempi molto significativi: lo statuto o la costituzione del Comune di Siena, una Repubblica indipendente nel 1309, secondo la quale la bellezza dovrebbe essere la preoccupazione principale della città; chi governa la città deve mettere la bellezza della città al primo posto. E la bellezza della città genera prosperità, gioia e felicità. E c’è un altro testo importante: la cosiddetta «Lettera a Leone X» scritta da Raffaele Sanzio e Baldassarre Castiglione nel 1519, sulla salvaguardia e la conservazione delle antichità romane. L’Italia ha una lunga tradizione di conservazione del patrimonio.

È quello che chiamiamo il «modello italiano».

Ovviamente c’è sempre, e sempre c’è stato, qualcuno che riconosce qualcosa come bella e interessante, e quindi degna di essere conservata. Ma qual è il modello italiano? Consiste nel dare a questo senso di qualità estetica un significato etico e legale, nel fornirgli una base giuridica. Questa consapevolezza legale risale alla legge romana. Perché la legge romana ha stabilito alcuni concetti: ad esempio, la «dicatio ad patriam», la regola della sottomissione all’uso pubblico, secondo la quale se costruisco una casa e metto delle statue sulla facciata, le statue mi appartengono, ma non posso rimuoverle perché sono anche diventate di proprietà pubblica. In tutte le forme di governo italiane, principalmente a Roma, ma anche nel Granducato di Toscana, il Ducato di Modena e vari Stati, ad esempio il Regno di Napoli, si è prestata particolare attenzione alle norme per la tutela del patrimonio e alle disposizioni che traducono l’idea di bellezza in un valore etico e in una costruzione legale con un proprio insieme di regole. A tutto ciò si sovrappone il concetto di «patrimonio nazionale», come sviluppato dall’epoca della Rivoluzione francese, perché nell’Ancien Régime la tutela era stata associata al sovrano: il papa tutelava le antichità di Roma perché appartenevano a lui. Dopo la Rivoluzione Francese, le antichità di Roma furono protette perché appartenevano al popolo. Quando la sovranità viene trasferita al popolo, questo concetto giuridico assume un significato molto diverso e può essere un principio di solidarietà all’interno di una società.

Questo è ciò che chiamiamo «funzione sociale del patrimonio». A che punto questo ruolo sociale ha cominciato a essere in pericolo?

È costantemente in pericolo. Le leggi sono fatte perché c’è una situazione che le rende necessarie. Si approva una legge sull’omicidio perché l’omicidio esiste. Ogni volta che esiste una legge per la tutela del patrimonio culturale, c’è, e c’è sempre stata, una tensione conflittuale tra le regole che conservano e quelle che distruggono. Succede ancora oggi. Tuttavia, c’è stata una doppia novità negli ultimi cinquant’anni. Da un lato, le norme di tutela del proprio patrimonio storico artistico non esistevano in nessun Paese; erano molto rare. La prima costituzione che menzionò la tutela fu la Costituzione della Repubblica di Weimar nel 1919; la seconda è stata la Costituzione repubblicana spagnola del 1931; la terza, la Costituzione italiana del 1948. Nel dopoguerra, dopo il 1950, la tutela del patrimonio divenne un fatto mondiale, entrando nelle costituzioni e nelle legislazioni dei Paesi dell’America Latina, dell’Asia e dell’Africa. Da un lato, è vero che il modello europeo è stato ampiamente divulgato. Dall’altro, nei Paesi in cui questa tradizione è molto più antica, come in Italia, la questione ha perso la sua rilevanza. Ciò che trovo interessante è che queste due modalità di sviluppo sono contrarie: il modello di tutela (questa è una parola chiave nella Costituzione italiana) è diffuso perché si teme che le opere d’arte di un certo Paese, ad esempio opere dei Maya e degli Aztechi, siano dirottate sul mercato. I regolamenti si sono diffusi come reazione al mercato. In Italia, al contrario, la normativa si indebolisce perché il mercato internazionale è potente e desidera fortemente opere d’arte italiane, ad esempio opere del Rinascimento ma anche di arte antica come sculture e vasi che si trovano nel Sud Italia. Quindi, è piuttosto interessante osservare che sia le forme di sviluppo positive sia quelle negative sono condizionate dalla forza dominante del nostro tempo: il mercato. In un Paese come l’Italia ci sono forze che lavorano in direzioni opposte; c’è sempre contraddizione e un equilibrio precario. Penso che il ruolo di uno storico dell’arte o di un archeologo come me sia quello di insistere in una direzione per bloccare l’altra.

Il suo libro «Italia S.p.A. L’assalto al patrimonio culturale» è stata una reazione a un momento di estremo pericolo.

In effetti è stata la risposta a un momento di estremo pericolo. Avevamo un Governo guidato da Berlusconi che ha immaginato la realizzazione di una legge secondo la quale tutto il patrimonio immobiliare pubblico, incluso il Palazzo del Quirinale, poteva, in linea di principio, essere venduto, come soluzione al debito pubblico. L’idea era di vendere i nostri palazzi pubblici, intascando molti soldi in una volta sola, e continuare a utilizzarli pagando un affitto. Ovviamente, questo non funziona, nemmeno da un punto di vista strettamente economico, e lo stesso governo Berlusconi ha abolito questo progetto pochi anni dopo. Quando ho intrapreso questa battaglia, ero quasi solo; ma fu una battaglia di successo: la legge fu cancellata, anche se alcune cose più piccole hanno continuato a essere vendute. Ma l’operazione complessiva non è mai stata realizzata.

Tuttavia lei è andato oltre, denunciando la tendenza a vendere il paesaggio stesso.

Era una questione marginale, perché in quel momento la legge non menzionava il paesaggio. Tuttavia, la Costituzione italiana, proprio come quella portoghese, nella tutela del patrimonio storico artistico include quella del paesaggio. Che è assolutamente giusto: insieme, il paesaggio e il patrimonio artistico formano un’unità. Il paesaggio è soggetto a un rischio diverso: il pericolo di essere considerato non come proprietà collettiva, com’è in virtù del suo valore estetico, etico e storico, ma semplicemente come terreno su cui costruire. E così il valore economico della terra e il perseguimento del profitto dalla proprietà diventano più importanti di qualsiasi altro valore. In un libro successivo, Paesaggio Costituzione cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile, ho cercato di argomentare, ricostruendo l’intera storia della legge italiana fin dal Medioevo, che la proprietà privata, sebbene incontrastata, è soggetta a regolamentazione a causa del suo coinvolgimento nel paesaggio, secondo il principio dell’interesse pubblico riconosciuto dall’ordinamento italiano. Oggi, in Italia, non c’è più alcun rischio che lo Stato venda i suoi musei o le sue opere d’arte. Tuttavia, il panorama italiano continua a essere devastato; si continuano a costruire abitazioni ovunque, anche se la popolazione italiana non cresce. Perché dobbiamo costruire così tanto se il numero di persone è lo stesso? Prendiamo Roma come esempio: perché ci sono progetti per costruire grattacieli, quando ci sono più di 200mila appartamenti vuoti in città? Ho posto questa domanda vitale per anni.

Ora si parla molto dei centri storici delle città. Tuttavia, il concetto di «centro storico» è in gran parte determinato dal turismo. La conservazione è necessariamente sinonimo di museificazione? 

Buona domanda. Sono completamente contrario a qualsiasi forma di museificazione di una città; una città non è un museo. In Italia, il discorso sulla «città-museo» è diventato attuale. Venezia è il più grande esempio, ma c’è anche il centro storico di Firenze. Le città non sono musei: sono pensate per essere vissute, ed è per questo che la tutela della conservazione non deve essere percepita come un modo per lasciare tutto in uno stato di ibernazione. Non desidero che la tutela del patrimonio significhi ibernazione. La realtà non va in letargo; il paesaggio è in continua evoluzione. Nelle città storiche, anche in quelle più preziose, il cambiamento non dovrebbe essere affatto escluso. Il cambiamento è necessario. Una città storica deve essere una città che ha un corpo e un’anima, che le conferiscono i suoi cittadini. Inoltre, i cittadini non possono essere messi in un museo; non possiamo considerare i cittadini che vivono nel centro storico di Siena come pezzi da museo, perché sono vivi e hanno le loro vite. Credo che la nozione di centro storico in sé porti certi rischi. Questo significa che ci sono cose in una città con le quali non puoi scherzare? O invece per rendere possibile tutto il resto? Voleva impedirci di costruire nel centro di Firenze, o permetterci di fare tutto ciò che desideriamo alla periferia di Firenze? Ci è vietato costruire una grande fabbrica in Piazza San Marco o siamo autorizzati a costruirla a Marghera? Una fabbrica di Marghera avrebbe comunque contaminato l’intero sistema della Laguna di Venezia. La nozione di centro storico serve a legittimare lo sviluppo delle aree periferiche, che riflettono il progetto architettonico più significativo degli ultimi cinquant’anni in Italia, ma anche il più odioso degli ultimi tremila anni. L’architettura italiana ha molto spesso mantenuto un elevato standard qualitativo, ma le «periferie» italiane sono le più brutte del mondo e sono state costruite continuando a dire che proteggevano il centro storico. Avremmo dovuto creare dei regolamenti per limitare lo sviluppo delle periferie, che non erano necessarie.

E il suo libro «Architettura e democrazia. Paesaggio, città, diritti civili»? È quasi un manifesto del dovere etico e delle responsabilità civili e politiche degli architetti.

In quel libro ho sostenuto che gli architetti hanno delle responsabilità etiche a cui non possono rinunciare. Proprio come i medici hanno le loro responsabilità e sono vincolati dal giuramento di Ippocrate, con il quale giurano di fare di tutto per curare i pazienti senza arrecare loro alcun danno, gli architetti dovrebbero essere soggetti a qualcosa di simile e seguire questo principio: «Posso fare molto, ma non posso danneggiare il paesaggio sul quale lavoro». Così, quasi in modo giocoso, ho inventato il «Giuramento di Vitruvio», che ha avuto un certo successo in Italia. In alcune città, come a Reggio Emilia, l’Ordine degli architetti ha aderito alla mia idea: un giuramento che vincolerebbe tutti gli architetti a valori come il bene comune, l’etica, la conoscenza e la responsabilità. Il discorso che sentivo di dover fare riguardava la responsabilità etica dell’architetto come persona che lavora per i cittadini e costruisce il luogo in cui vivono. Ho trovato testi molto interessanti e molto belli dell’architetta modernista italo-brasiliana Lina Bo Bardi, che si è laureata in Italia nel 1939 ma ha lavorato e vissuto in Brasile dal 1946 fino alla sua morte nel 1992. Ha combattuto tutta la vita per la responsabilità morale e sociale dell’architetto. L’architetto non dovrebbe costruire semplicemente perché è pagato per farlo, proprio come il medico non può accettare l’ordine, sotto pagamento, di uccidere una persona. Un architetto dovrebbe assumere un dovere simile. Se ti viene chiesto di costruire un grattacielo nel centro di una città storica, dovresti dire di no. L’architettura deve essere un aspetto essenziale del «diritto alla città».

Nel suo libro su Venezia, ispirato a «Le città invisibili» di Italo Calvino, stabilisce un’importante distinzione tra il corpo e l’anima della città. Questa opposizione è molto efficace quando si analizzano i fenomeni che danneggiano le città storiche oggi.

Conoscevo Italo Calvino, eravamo amici e abbiamo parlato spesso. Cito Calvino perché il suo libro è molto bello e presenta Venezia in contrasto con la città informe, la megalopoli moderna. Volevo anche rendere il mio personale tributo a Calvino. In questo libro porto Venezia come simbolo della città storica, dove c’è una simbiosi tra il tessuto urbano e il suo ambiente naturale, la Laguna. Inoltre, alcuni processi sono più evidenti a Venezia che altrove, in particolare l’inesorabile spopolamento della città. Negli ultimi cinquant’anni Venezia ha perso due terzi della sua popolazione. Sta perdendo mille abitanti ogni anno e si sta progressivamente svuotando. Una città che perde i suoi abitanti cessa di essere una città, se è vero che i cittadini sono l’anima di una città. Tutto ciò accade e nessuno cerca di esaminare la questione e capire perché. Tuttavia, la risposta è semplice. Venezia è una città famosa; è straordinariamente bella e attrae persone benestanti che acquistano un palazzo sul Canal Grande ma non rimangono in città per più di qualche giorno in un anno intero. Un gran numero di case a Venezia sono seconde case e non si fa nulla per fermare questa tendenza. La Svizzera ha approvato una legge che stabilisce che solo il 20% degli alloggi, non di più, può essere «seconda casa». Quali sono le ripercussioni di questo enorme numero di persone che trascorrono in media due giorni e mezzo all’anno a Venezia, e quindi non possono partecipare alla vita della città? Innanzitutto, la completa trasformazione del mercato, che rende impossibile per i giovani, i vecchi e i poveri vivere a Venezia; non possono permetterselo. Non riesco a capire perché né il sindaco di Venezia, né lo Stato italiano, né la Regione del Veneto fanno nulla per fermarlo. Se la Svizzera, che non è un Paese comunista, ha approvato una legge che limita la proprietà privata, non riesco a capire perché non dovremmo fare lo stesso in Italia, anche come esperimento; per alcuni anni, a Venezia.

Il titolo del suo libro «Se Venezia muore» non è di buon auspicio.

Se Venezia muore è una clausola subordinata. Il libro termina con la frase completa: «Se Venezia muore, non sarà solo Venezia a morire: morirà l’idea stessa di città, come aperto e vario spazio di vita sociale, come creazione suprema della nostra civiltà, come impegno e promessa di democrazia». Se non si fa niente per una città così preziosa, come ci si può aspettare che sia fatto qualcosa per altre città?
 

È vero che soltanto il turismo può permettere alle città d’arte di sopravvivere e di sfuggire alla rovina?

Questo è un errore, perché si basa sul presupposto che gli abitanti di una città potrebbero esistere solamente per lavorare per i turisti e che la città potrebbe essere trasformata in una città di schiavi. Questo non è mai accaduto nella storia. Ovviamente, non vogliamo vietare il turismo e anche a me piace molto visitare altri Paesi. E abbiamo bisogno che le persone si prendano cura di tutto ciò che il turismo richiede. Ma non puoi trasformare un’intera città in una struttura turistica. È un argomento fallace, perché presuppone che le attività creative non esistano più e che le città non creino nulla; le città ricevono semplicemente un flusso di denaro senza creare nulla. Al massimo, creerebbero ricette di cucina: un nuovo tipo di pastasciutta, forse. No, quello non dovrebbe essere lo scopo di una città. Voglio una città aperta, una città turistica, ma il vero impulso del turismo dovrebbe essere la nostra curiosità per la cultura di un altro Paese. Dal momento in cui i turisti scoprono che la città che stanno visitando non è altro che una gigantesca struttura turistica e tutte le attività creative sono scomparse, la città è morta. Venezia ha ancora la Biennale e l’Università. Se solo i giovani che studiano lì potessero vivere in città e non dovessero prendere il treno ogni giorno per Venezia e ripartire... La Biennale, che è stata creata più di cento anni fa, era già una reazione al declino di Venezia. Abbiamo portato avanti la creazione dei nostri antenati, ma non siamo riusciti a creare nulla di nuovo.
 

A Venezia ha sede una Facoltà di Architettura che è stata molto importante negli anni Settanta e Ottanta, dove sono passate personalità illustri come Tafuri, Rossi, Gregotti. È ancora importante?

Lo è, ma potrebbe esserlo ancora di più. Potrebbe essere un polo di attrazione che trasformerebbe Venezia in un caso di studio mondiale, non in un modo puramente astratto, come lo è il discorso dell’amministrazione per salvare Venezia. L’amministrazione è inerte, come si deduce dal fatto che continua a permettere che enormi navi da crociera, molto più alte di Palazzo Ducale, si avvicinino pericolosamente a Piazza San Marco. Si farà qualcosa quando, un giorno, una di queste grandi navi urterà Palazzo Ducale. Non è solo pericoloso, ma c’è anche l’impatto visivo negativo. Il «Corriere della Sera» ha calcolato che le perdite causate da queste navi sono maggiori dei soldi spesi dai turisti che viaggiano su di lei quando vanno in città per alcune ore.
 

Il concetto classico di città è in pericolo?

Penso che la città sia in crisi, soprattutto perché il processo di globalizzazione induce inconsciamente a pensare che la città del futuro seguirà un unico modello, che le città saranno tutte uguali, tutte caratterizzate da un’espansione indefinita, e che i quartieri saranno divisi in base al reddito dei cittadini. Ci sarebbero i quartieri dei poveri e quelli dei ricchi, da un lato i condomini datati e dall’altro le favelas, come in Brasile e in Messico. Ho approfondito questo argomento in Architettura e democrazia. Il modello di una città in continua espansione è attualmente un modello di successo, perché enormi masse di popolazione continuano a trasferirsi in queste città. Nel 1850 il 3% della popolazione mondiale viveva in una città; oggi è il 54% e fra trent’anni sarà il 70%. È un fenomeno molto complesso. Non è il mio campo, ma mi chiedo semplicemente: è questo l’unico modello per una città o è possibile proteggere la diversità? La diversità ha prevalso nella religione, nella cultura, nell’orientamento sessuale e nelle idee. Non dovremmo difendere anche la diversità delle città? Come vivi in una città di quaranta milioni di abitanti? Non vorrei viverci. Sostengo che è possibile avere un modello di una città storica che ha una sua vita, una vita creativa, senza pensare che debba espandersi continuamente, senza pensare di integrare i grattacieli, senza pensare che le persone dovrebbero essere organizzate secondo una divisione tra quartieri poveri e quartieri ricchi. Questi fenomeni sono inevitabili? Forse no. In ogni caso, possono essere evitati in alcune città. E credo che una città come Venezia, dove la Laguna definisce chiaramente il perimetro del centro storico, si presta a fare da simbolo.
 

Uno dei suoi libri è intitolato «Il futuro del “classico”». Qual è la sua definizione di «classico»?

La parola «classico» ha molti significati; per esempio, c’è la musica classica, ci sono i classici della letteratura e così via. Non ho usato la parola in questo senso. Ho parlato del classicismo greco-romano, di come la cultura greco-romana si stata, dall’Umanesimo alla prima guerra mondiale, la cultura delle élite europee. In tutta Europa, inclusa la Russia, si diceva che la cultura greca e quella romana avessero la funzione di educare lo spirito come nessun’altra cultura. Oggi nessuno più lo pensa. Quale potrà essere il futuro della cultura greco-romana? La mia risposta in quel libro è stata questa: è importante studiare la cultura greco-romana perché consente di articolare i concetti del pensiero. Può essere ancora più utile se ricordiamo che, contrariamente a quanto si credeva nel XIX secolo, non è vero che Greci e Romani siano come noi. Erano molto diversi. Se riconosciamo la diversità di quella cultura, anche la diversità all’interno della stessa cultura classica (perché i Greci della Sicilia erano molto diversi da quelli dell’Asia Minore, e i Romani delle province romane spagnole erano diversi da quelli della provincia romana della Dacia), se percepiamo tutta questa diversità, allora la ginnastica mentale che si fa in questo viaggio attraverso il mondo antico ci educherà al rispetto delle altre culture. La risposta che cerco di dare nel libro è questa: lo studio della cultura classica, della letteratura greca, della letteratura latina, della storia, dell’arte e così via, è un’educazione al rispetto della diversità. Questo è il futuro del classico.

Paolo Fizzotti, 01 settembre 2018 | © Riproduzione riservata

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