Mario Trabucco della Torretta
Leggi i suoi articoliChe pena leggere le affermazioni di Catharine Titi, nell’articolo a firma di Luana De Micco. Nella mia qualità di archeologo classico coinvolto nella campagna in difesa dei Marmi Elgin dalle infondate e nazionalistiche rivendicazioni della Grecia, ho avuto modo di esaminare a fondo il volume della ricercatrice greca, e posso affermare senza dubbio la totale inconsistenza scientifica delle sue premesse storiche.
Non si tratta solo di errori di poco conto: parlo di consapevole omissione nel menzionare fatti e dettagli salienti, nonché di errori marchiani di interpretazione delle fonti primarie. L’autrice scambia piastre per sterline, moltiplicando così i valori in gioco di sedici volte; inventa il primo caso al mondo di corruzione rateale post factum; cita lettere dei personaggi principali in modo incompleto al fine di alterarne l’interpretazione, come la lettera di Elgin a Lusieri del 10 luglio 1801 con la richiesta di marmi per la casa scozzese del conte, da cui viene omessa la frase chiave «queste mie riflessioni si applicano solo al marmo non lavorato».
Anche la famosa lettera di Robert Adair citata nell’articolo e considerata la prova regina del misfatto assume tutt’altra lettura se si considera che i marmi del Partenone erano già a Londra da più di otto anni e che i materiali cui ci si riferisce fanno parte di una seconda collezione che Lusieri, l’agente di Elgin ad Atene, creò comprando oggetti antichi per conto del suo committente dopo la sua partenza da Costantinopoli nel 1803.
Il volume della ricercatrice greca, lungi dall’essere un valido contributo all’eterno dibattito sulla liceità delle azioni di Lord Elgin, si pone nella lunga scia di accuse di furto e corruzione che da duecento anni vengono lanciate all’indirizzo del conte inglese.
Il problema non è solo che queste accuse non stanno in piedi per mancanza di prove, bensì che ancora al giorno d’oggi si possano ripubblicare nonostante la pletora di prove storiche a sostegno del contrario: ovvero che Elgin venne ampiamente autorizzato dall’unica autorità internazionalmente riconosciuta su Atene e la rimozione delle sculture partenoniche fu, per quanto discutibile, del tutto legale.
Il libro della Titi, lungi dall’essere un distillato della conoscenza scientifica sul tema all’anno corrente, è nulla più che un maldestro bluff e il dibattito non avanzerà di un millimetro fintanto che il Governo greco non riconoscerà i diritti del British Museum o non porterà prove storiche incontrovertibili degli immaginari illeciti che va propalando.
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