Quando Jack Whitten andò a studiare alla Southern University in Louisiana, iniziò immediatamente a prender parte alle manifestazioni per i diritti civili. Partecipò a una celebre marcia che partì da Baton Rouge per raggiungere la capitale e produsse slogan, striscioni e manifesti che diventarono celebri in quelle occasioni. Aveva da poco sentito parlare Martin Luther King a Montgomery e non dimenticò mai le sue parole e la sua visione di una nuova America.
Whitten era nato a Bessemer, in Alabama, poco distante da Montgomery, nel 1939. Nel 2015 ha scritto: «L’estate a Bessemer in Alabama è calda, umida e appiccicosa. Ai miei tempi era proibito ai bambini neri nuotare nelle piscine comunali. Erano a uso esclusivo dei bianchi. Allora i bambini più grandi costruirono una diga di fango e tronchi d’albero e pietre... Fecero un perfetto piccolo lago dove nuotare. Attaccammo perfino la ruota di una macchina a una corda su un albero per lanciarci nell’acqua. Era così bello! Ma una mattina il divertimento finí all’improvviso, quando il primo bambino che si buttò in acqua ne uscì urlante e con i piedi insanguinati. Evidentemente i bianchi pensarono che i negri si stessero divertendo troppo e nottetempo avevano buttato in acqua sacchi di vetri di bottiglia rotti».
Nel 1960 Whitten improvvisamente lasciò quel Sud e si trasferì a New York, si iscrisse a Cooper Union dove si laureò ed elesse la città a dimora definitiva, fino alla sua scomparsa nel 2018. La sua arte fu influenzata dagli espressionisti astratti, De Kooning e Romare Bearden in particolare. Incontrò Jacob Lawrence e Norman Lewis, anche se l’esperienza delle lotte per i diritti civili e le parole di Martin Luther King rimasero per lui le più forti e influenti. Ripetè spesso che quel che gli importava di più era che le sue opere fossero espressione di «verità» e che avessero «un’anima». «Sono solo un veicolo dello spirito, che si manifesta attraverso la materialità della mia pittura», ha detto. Ma Whitten ha anche rivoluzionato la tecnica pittorica forse come nessun altro della sua generazione. Ha sperimentato l’acrilico come nessuno, ha creato opere che paiono immagini delle galassie o giganteschi ingrandimenti fotografici in cui si possono identificare i pixel, ha assorbito la tradizione dell’antica Grecia, nel corso di numerose estati trascorse nell’arcipelago dell’Egeo e l’arte del continente africano e le ha combinate con le moderne tecnologie.
La sua opera, prodotta nell’arco di sessant’anni, è ora oggetto della grande retrospettiva che il MoMA gli dedica dal 23 marzo al 2 agosto: più di 175 opere, tra dipinti, sculture e lavori su carta che mettono perfettamente in luce la sua visione artistica. Intitolata «Jack Whitten: The Messenger», la mostra racconta la storia culturale del suo tempo, la lotta contro il razzismo, il ruolo della tecnologia, il jazz, l’amore e la guerra. Insomma «l’arte di un mondo in tumulto», come ha affermato la curatrice Michelle Kuo.

Jack Whitten, «Birmingham 1964», 1964, collezione di Joel Wachs. © Foto: John Berens, courtesy the Jack Whitten Estate and Hauser & Wirth