Valerio Dehò
Leggi i suoi articoliMentre è in corso, fino al 27 novembre, tra il Museo d’arte contemporanea Villa Croce e Palazzo della Meridiana di Genova, l’ampia retrospettiva curata da Ilaria Bonacossa «Moderno, postmoderno, contemporaneo» (cfr. «Il Giornale dell’Arte», n. 367, set. ’16, p. 37), è in uscita entro l’anno (acquistabile dal sito www.aldomondino.it dal gennaio 2017) il Volume I del Catalogo generale di Aldo Mondino (Torino, 1938-2005), dedicato alle opere archiviate dal 2005 al 2015 ed edito da Umberto Allemandi & C. I testi in catalogo sono di Achille Bonito Oliva, Ilaria Bonacossa e Valerio Dehò. Dal saggio di quest’ultimo «Mondino. Mode d’emploi» è tratto il brano che segue.
Aldo Mondino ha sempre pensato da pittore. Non ha mai avuto uno sguardo attento sulla realtà come catalogo di oggetti da riprodurre e nemmeno ha cercato di eternarsi in uno stile definito e definitivo. La sua miopia non era solo un difetto della vista, ma è diventata un modo di conoscere il mondo, di vederlo a proprio modo (...) In fondo non mettere a fuoco le cose è stata una scusa per sentirsi libero. Anche quando si è dedicato alla scultura, è sempre stata forte la presenza del disegno, non del progetto vero e proprio, ma di quel legame necessario tra un’idea e la forma. Per un artista frenetico come lui era fondamentale cogliere l’immediatezza di trasferire sulla carta un’immagine, un pensiero, un’associazione mentale, lo spunto germinale di un’opera a venire.
Mondino ha disegnato tutta la vita, tutti i giorni. E con lui si sono sempre superate le barriere tra pittura e concettuale, anzi, già negli anni Sessanta ha dimostrato che se ne poteva fare a meno senza grossi scompensi intellettuali o esistenziali. Non ha mai cercato di appartenere a gruppi o di aggrapparsi a etichette e nessuno è mai riuscito chiudere il suo lavoro in una definizione. (…) Nel 1965 le tele con i palloncini applicati in plastica evidenziano una sua idea precisa. Il quadro presuppone il suo oltrepassamento, si resta all’idea di pittura ma la si supera nello stesso tempo. Mondino comincia ad andar fuori quadro già quando comincia nel 1964 a portare la «Donna con bambino e uova» di Casorati in giro per i materiali e gli oggetti d’uso più diversi. Casorati, simbolo della Torino austera del Novecento italiano, viene trasposto con un suo quadro-icona in forme inusitate e non certamente agiografiche. Diventa uno zerbino, una tenda, una torta e anche delle tshirt, con un’intuizione alla Banksy, ma arrivata cinquant’anni prima. Mondino gagdettizza l’arte colta. (…) La terza dimensione diventa sempre di più una parte integrante del suo linguaggio.
Alla galleria Torre di Torino presenta nel 1967 la ormai mitica «Torre di torrone» e la serie delle «Caramelle», in perfetta sincronia con la Eat art di Daniel Spoerri, che appunto nello stesso anno teorizza un’ arte alimentare, nutritiva, puro bisogno elementare. Le opere dolciarie sono un altro modo di rapportarsi alla tradizione alimentare della sua Torino, ma anche un’altra grande sperimentazione di materiali impossibili. (...) L’«Ittiodromo» (chiamato anche «Ultimo gioco») presentato all’Arco d’Alibert (di Roma, Ndr) è invece un lavoro molto duro del dicembre 1968: pesci veri, sangue e uno scivolo da parco giochi. Un lavoro anche questo di grande drammaticità attenuata dal titolo e dal complessivo senso del gioco. Tra dramma e ironia il lavoro procede senza chiudersi in uno stile o dentro una formula estetica. L’arte ci deve salvare dalla ripetizione, anche se differente. Tutto cambia in pochi anni, in un decennio Mondino sperimenta tutto e altro ancora (…) Le sculture di Mondino sono degli assemblaggi che tengono conto di tutti i tipi di materiali, si tratta spesso non solo di sorprendere ma anche di sciogliere tra la parola e l’immagine quel filo sottile che metaforizza la realtà, che la rende fantastica e immaginativa. Il «Sole» è un omaggio alla luce nella sua quotidianità domestica, ma anche la mimesi di un viaggio dall’alba al tramonto. Siamo ai confini dell’Arte povera, probabilmente al di là di qualsiasi ideologia.
Tra realtà e finzione la verità profonda viene fuori da una mise en abyme vertiginosa. In questo Mondino è vicino a un’arte legata al calembour e al mot d’esprit come l’Alighiero Boetti di «Leggere in verticale, disegnare in orizzontale», il Piero Manzoni degli «Achrome», l’Agnetti del «Dimenticare a memoria», il Pino Pascali dei «Bachi da setola». Artisti unici ma accomunati da un principio di détournement alla Debord però rivisto al contrario: è il falso a essere un momento del vero. L’attesa che non viene soddisfatta e lo scarto tra il visivo e il verbale aprono a nuovi significati. La dissipazione/disseminazione di Mondino sta in questi gesti senza che lui rinunci mai all’opera, senza sposare il concetto per mettere da parte il «piacere del testo». Ma nello stesso tempo questo piacere filosoficamente libertino nasce dal gusto di deviare il senso del discorso verso i paesaggi della parodia e l’intelligenza dell’ironia. (...) Artista errante, ha recuperato dalla religione materna una sua forma di adesione a un popolo, a un destino, a un modo di essere e di pensare.
Il viaggio in Palestina a metà degli anni Ottanta in prosecuzione di quello in Marocco lo avvicina con l’origine ebraica della famiglia di sua madre (...) Per Mondino era un bisogno di radicamento più profondo, quindi la ricerca di un senso dell’origine. (...)
I temi ebraici sono poi legati all’abbigliamento soprattutto di quegli ebrei ortodossi che diventano immagine di una patria impossibile o ideale, ma anche i protagonisti di opere descrittive di un viaggio in Terra Santa alla scoperta di una religione che è soprattutto un legame di discendenza. E gli anni Ottanta sono segnati anche da una serie di sculture che fanno riferimento a questi temi. «Gerusalemme» (1988), per esempio riesce a sintetizzare perfettamente quest’idea perché una serie di cappelli di ebrei sono appoggiati su di una palma che diventa un attaccapanni. Mondino non è antireligioso, però non riesce mai a rinunciare all’ironia. E poi questa immagine gli è stata suggerita direttamente dal suo viaggio proprio a Gerusalemme. Altra opera fondamentale è il «Muro del Pianto» (1988), lavoro straordinario quanto effimero, reiterato, sempre attuale. Con dei fogli di polistirolo e dello zucchero di canna per dare il colore brown richiesto, l’artista ha saputo ricreare il luogo cardine della cultura ebraica, il muro delle preghiere, del contatto con Dio, punto di raccolta degli ebrei di tutto il mondo e simbolo stesso di Gerusalemme. L’illusione della realtà è perfetta, una serie di cespugli veri completano una forma di totale immersione in un universo fantastico e concreto nello stesso tempo.
Altra opera da ricordare è sicuramente «Lobby star» (1987), una grande nassa per aragoste che ha la forma di una stella di David. Il gioco di parole Lobster, cioè aragosta in inglese, e il riferimento alle lobby ebraiche nel mondo e negli Stati Uniti in particolare, sono sintetizzati in una scultura forte e immediata, surreale e realistica al tempo stesso. (…) Importante e mondiniana è anche l’idea della scultura che si coniuga a materiali diversi, come la mitica «Scultura un corno» dell’80 che alla versione in bronzo (1989) e cioccolata dello stesso periodo, ha visto affiancarsi una in ceramica nel 2001. Il cioccolato, l’Africa, sono suggestioni affascinati in sé, ma ancora una volta è lo splendore (e il profumo) dei materiali a sorprendere. Il cioccolato nel tempo assomiglia alle patine del bronzo e il bronzo negli anni diventa più interessante e misterioso. L’arte di Mondino vive, si evolve, non si stabilizza nel tempo. (…)
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