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Un sasso nello stagno ministeriale

Massimo Montella

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Almeno per una ragione la nomina dei direttori dei venti musei è un fatto di per sé positivo, non ultimo per la decisione di reclutare non solo italiani e ministeriali.

È vero che non tutti i prescelti risultano convincenti. È ovvio che questo solo non risolve il problema. Ma è un sasso nello stagno ministeriale. Che vi siano funzionari anche ottimi non toglie, infatti, che l’amministrazione statale dei beni culturali sia alquanto lontana dalle attuali esigenze sociali, chiusa a ogni relazione con altri attori culturali, dall’università alle associazioni di cittadini, e alquanto sorda alle esigenze degli utenti e alla produttività della spesa.

Ma il problema non è circoscritto al Ministero. Attiene più in generale alle consuetudini culturali nostrane. Stando ai fatti, non sembra superata l’eredità di celebrati maestri, per i quali «le ore più strettamente museali sono quando il Museo è serrato, sottratto alla “consumazione” e tra le raccolte regnano, più solenni, l’immobilità e il silenzio», perché, «in effetti, sebbene si proclami oggi che un elemento costitutivo fondamentale del Museo è anche il suo pubblico, l’idea di Museo sembra poter sussistere sufficientemente anche senza tale elemento. Non mancano, in Italia almeno, musei chiusi a tempo indeterminato, né per questo essi cessano di essere tali». 

Peraltro lo spazio offerto da importanti organi di informazione a quanti avversano la valorizzazione e il marketing anzitutto, presentandoli come sinonimi di mercificazione, prova bene quanto sia diffuso un ritardo culturale e di etica pubblica che ostacola un più vasto apprezzamento sociale del patrimonio culturale e ne mette pertanto a rischio la conservazione stessa. Per il nostro arroccato sistema appare pericolosamente sovversivo che il marketing si applichi ad attività non lucrative come i pubblici servizi, che dovrebbero dunque mirare alla soddisfazione degli utenti. Un direttore di museo non potrebbe più vantarsi, infatti, di essere uno studioso aristocraticamente ignaro di questioni gestionali.

Andrebbe innovata radicalmente l’offerta anzitutto culturale, in modo che il museo sia comprensibile anche ai non addetti ai lavori e non risulti più diseducativo, come denunciato da tempo da Andrea Carandini, inducendo a credere che le generazioni passate sono vissute per il bello mentre la nostra è la prima interessata all’utile. 

I nuovi direttori non potranno fare più di tanto. Hanno tempi troppo brevi per innovazioni radicali e la loro autonomia è molto limitata dal quadro d’insieme e specie per quanto concerne la gestione del personale. Ma si spera che possano almeno rovesciare l’idea che il museo serva a trasmettere «il piacere dell’arte come silenziosa religione dello spirito», che il pubblico debba essere frastornato dalle «solite chiacchiere sull’arte», insopportabili non soltanto per Thomas Bernhard, che basti scrivere «peristilio» per spiegare un luogo o «skyphos» per un oggetto o che si debba dire «ceroplasta» per il vasaio.

Accadesse questo, e perfino che i musei con raccolte di provenienza locale agiscano per la valorizzazione dei territori circostanti, sarebbe non poco. Magari nel frattempo il ministro della Repubblica, e non solo dell’amministrazione centrale dello Stato, potrebbe considerare le migliaia di musei locali che dovrebbero fungere da cardine del «museo diffuso», non museificato, che costituisce il vero privilegio italiano. Allora si potrebbe mettere in opera insieme alle autonomie una strategia complessiva, che preveda anche una disciplina tecnica per il buon funzionamento di tutti i nostri istituti, per le cui funzioni direttive siano richieste competenze che integrino saperi teorico-speculativi, giuridico-istituzionali ed economico-gestionali acquisite a seguito di efficaci percorsi formativi.

Massimo Montella è professore di Economia e gestione dei Beni culturali all’Università di Macerata

Massimo Montella, 22 ottobre 2015 | © Riproduzione riservata

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