L’installazione «Like a Flood» (2025) di Adelita Husni-Bey nella Kalba Ice Factory di Sharjah, commissionata dalla Sharjah Art Foundation e resa possibile grazie al programma dell’Italian Council (2024), con Alserkal Arts Foundation, Dubai. Ricerca progettuale condotta in collaborazione con Shehrazade Mahassini

Foto: Motaz Mawid

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L’installazione «Like a Flood» (2025) di Adelita Husni-Bey nella Kalba Ice Factory di Sharjah, commissionata dalla Sharjah Art Foundation e resa possibile grazie al programma dell’Italian Council (2024), con Alserkal Arts Foundation, Dubai. Ricerca progettuale condotta in collaborazione con Shehrazade Mahassini

Foto: Motaz Mawid

Uno sguardo femminino sulla Biennale di Sharjah

La 16ma edizione della mostra propone un approccio metodologico al mondo che rifiuta lo sguardo patriarcale per riflettere sui concetti di identificazione, oggettivazione e capacità di azione di chi si trova in una posizione marginalizzata

Una delle opere più fotografate di questa 16ma edizione della Biennale di Sharjah (fino al 15 giugno), una delle più interessanti manifestazioni che, per storia istituzionale e posizione geografica, ambiscono a tessere le narrazioni fra Nord e Sud del mondo, fra le Americhe con il Sudest asiatico, è «Gastromancer» di Monira Al Qadiri, due imponenti conchiglie in un ambiente dalla luce carminio. Porgendo l’orecchio alla loro cavità non senti il suono del mare, che invece anima la sala, quasi fosse un basso continuo. Se porgi l’orecchio, senti un dialogo fra le due valve, che raccontano, a partire dagli scritti del poeta Thani Al-Suwaidi, come l’inquinamento ambientale in cui sono immerse stia trasformando il loro genere da maschile a femminile, annientando la loro capacità riproduttiva e quindi il futuro della specie stessa. C’è tanta simbologia legata al femminino in questa Biennale, attraversando le mitologie aborigene, mediterranee, sudamericane e dell’area del Golfo, così come c’è un esercizio femminile di potere immaginifico da parte del quintetto curatoriale (*Alia Swastika, Amal Khalaf, Natasha Ginwala, Zeynep Öz e Megan Tamati-Quennell) e un potere economico e politico della fondatrice e direttrice della Sharjah Art Foundation, Sheikha Hoor Al Qasimi, al vertice della classifica dei Power 100 di Art Review per il 2024. Indubbiamente il «female gaze» permea il percorso costruito da quest’edizione intitolata «To Carry». Non stiamo parlando della banalizzazione di una curatela «al femminile», quanto di un approccio metodologico al mondo che rifiuta il secolare sguardo patriarcale per riflettere sui concetti di identificazione, oggettivazione e capacità di azione di chi si trova in una posizione marginalizzata, come la soggettività femminile, appunto. Ma che potrebbe spostarsi a un più intersezionale discorso sulla condizione postcoloniale, sullo squilibrio economico, sul Sud globale.

Cassi Namoda, «Carapau in the deep abyss», 2024. Commissionato da Sharjah Art Foundation. Cortesia dell’artista e di Xavier Hufkens, Brussels. Foto: Sebastiano Pellion di Persano

È questa la cornice interpretativa di una Biennale straordinariamente ricca (stiamo parlando di circa 650 opere per un totale di circa 200 artisti) che nulla regala al visitatore. Chi vuole avventurarsi nel percorso deve essere pronto ad attraversare 17 sedi, alcune nel centro della capitale emiratina, altre nel suo territorio, fra mare e deserto, a due ore di auto dalla sede principale. Al di là dell’indubbia suggestività di alcune sedi periferiche di questa edizione, come il villaggio abbandonato di Al Madam o il Parco geologico Buhais, a dare sostanza alla scelta è il progetto di valorizzazione dei luoghi. La Fondazione, infatti, da anni sta attuando una politica di riconversione di alcuni edifici storici di interesse culturale che, strappati alla demolazione, vengono riconvertiti in luoghi espositivi o spazi educativi. È il caso del Kindergarten di Kolba, uno spazio avanguardistico negli anni Settanta, o i magazzini industriali della Kalba Ice Factory. Nelle varie sedi si intrecciano i discorsi curatoriali delle curatrici, e le ricerche a volte sono semplicemente accostate e condividono lo spazio, altre risuonano e si fondono. Alia Swastika, a partire dal ruolo cruciale avuto dalla stele di Rosetta nello scoprire la civiltà egizia, conia il termine «Rosestrata», un modello di traduzione e comprensione della conoscenza ancestrale prodotta e tramandata attraverso il corpo delle donne. Così il Womanifesto delle artiste del Sudest asiatico viene posto in relazione con il Maritime Studies Project di un collettivo che indaga le zone costiere attraverso il mito, gli ornamenti di Chun Shao con i tubi di acciaio di Rossella Biscotti («Saturated Salty Mud Stories»). Amal Khalaf, nel suo «Throwing Shells» (Gettare le conchiglie) pone al centro la ritualità della divinazione attraverso le conchiglie, una tradizione del Bahrein, per proporre l’ancestralità del rituale come via di riconciliazione davanti alla violenza politica e al collasso ambientale del presente. 

Akira Ikezoe, «Bears on the Diagram of Chernobyl Nuclear Power Plant», 2021-24. Commissionato da Sharjah Art Foundation. Cortesia dell’artista

Nella riflessione sui processi di guarigione e cerimonia, il «Tentacular Bed» di Raffaela Naldi Rossano, insieme scultura ambientale e orchestra a disposizione del visitatore, contribuisce alla stessa narrazione di Sarah Abu Abdallah, con la sua tela lunga 50 metri («You Ask, We Answered»), un azzurro dipinto immersivo di un mare-cielo che rispecchia il labirinto cognitivo dell’autrice, fra collage e proiezioni, fra l’intimità dell’artista e le trasformazioni socioculturali della nativa Arabia Saudita. Lo statement curatoriale di Megan Tamati-Quennell ruota attorno al concetto di «hih», del filosofo Māori Marsden, ovvero la forza fisica emanata da una persona, capace di incutere rispetto e timore. Qui troviamo il film di Arthur Jafa, «Lolm», che elabora la perdita dell’amico Greg Tate, le pitture aborigine di Daniel Boyd, le imponenti installazioni che metaforicamente fronteggiano il mare, «Veritas» di Kaili Chun e «Kinyingarra Poles» di Megan Cope, la prima geometrica e in acciaio, la seconda organica in legno e gusci d’ostriche. «The Ancestral Well: Pulse to Terrain» di Natasha Ginwala, invece, sfrutta le ricerche musicali (con un vero e proprio vinyl project), coreografiche ed editoriali. Se da una parte la metafora del pozzo richiama le fedi animiste e il culto delle acque, dall’altra evoca la guerra per le risorse idriche in un’epoca di cambiamento climatico. Lo sguardo è poliedrico, con le Veneri nere in rafia di Hugh Hayden, i disegni di SM Sultan, i ricami di T. Vinoja e la produzione multimediale del pittore e filmmaker Viswanadhan. Infine «Yaz» (in lingua turca, «scrittura» ma anche «estate»), il progetto di Zeynep Öz che si muove fra pubblicazioni editoriali e installazioni spaziali e sonore. In questo caso il tema è quello dell’economia e dell’abitare in questo momento di rapido avanzamento tecnologico e transizione sociofinanziaria.

Indubbiamente il percorso richiede tante energie fisiche ma, anche, intellettuali. Non è una visita semplice: il tema curatoriale è polifonico, stratificato, e chiama in gioco contesti ed estetiche differenti, con riferimenti probabilmente non del tutto padroneggiati dal visitatore. La complessità viene messa davanti agli occhi e ai sensi, con onestà. Non è semplice, non è immediata, talvolta è caotica, contraddittoria o porta in un vicolo cieco che sfugge alla nostra comprensione. Rispecchia questi tempi che stiamo vivendo. Allora portiamo su di noi il peso di questo oggi, non sfuggiamo alla responsabilità, come artisti, curatori, visitatori o, semplicemente, essere umani. Questa terra sono le nostre ossa, questo mare il nostro sangue, per citare le parole della leader indonesiana Mama Deci, riportate dalla curatrice Alia Swastika. Prendiamoci cura di queste ossa, ascoltiamo la storia che scorre in questo sangue. 

Brian Martin, «Baw-li tharra burriin Kamilaroi #3», 2023. Cortesia dell’artista

Lorna Simpson, «From Earth & Sky (Detail 9)», 2016-18. © Lorna Simpson. Cortesia dell’artista e di Hauser & Wirth. Foto: James Wang

Micaela Deiana, 11 marzo 2025 | © Riproduzione riservata

Uno sguardo femminino sulla Biennale di Sharjah | Micaela Deiana

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