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Urbani: È tutto è sempre uguale perché è inetto chi dovrebbe tutelare

Bruno Zanardi

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Oggi Amatrice, ieri L’Aquila, l’altro ieri Modena, poi San Giuliano, Assisi e così via in un lungo elenco di tragedie. Ma tutto resta uguale. Nessuno fa nulla per la difesa del suolo e il consolidamento preventivo dell’edilizia storica. Perché questo scandalo? Perché le istituzioni preposte alla tutela del patrimonio artistico e dell’ambiente sono storicamente inette. Sempre abilissime a piangere lacrime di coccodrillo davanti a televisioni, radio e giornali sul latte versato, ma ancor più abili a continuare imperterrite a non dotarsi di un qualsiasi progetto su come impedire quelle tragedie. In ciò aiutate dalle farneticazioni ideologiche su «modernità», «democrazia», «moduli abitativi umanistici» e così via, pronunciate da una congerie di architetti, urbanisti, sociologi, storici dell’arte e altri professori, tutti rigorosamente ignoranti tanto della storia come dell’estetica. La prova di tutto ciò? La possibilità di ripubblicare (oggi così come dopo ogni terremoto) quanto aveva scritto Giovanni Urbani nel 1981, 35 anni fa, a ridosso di un terremoto altrettanto disastroso, quello dell’Irpinia, costato oltre tremila morti. Bruno Zanardi

 

Con la distruzione a decine d’interi comuni dell’Irpinia, con la perdita di oltre tremila vite umane e con le sofferenze di centinaia di migliaia d’altre, col collasso di una città come Napoli, e coi costi o meglio sprechi d’una ricostruzione che si prospetta a dir poco caotica, non è necessaria nessuna competenza in economia per sapere quale sarà il saldo di una politica economica che non si è mai degnata di far entrare nei propri conti i costi del dissesto geologico, del disordine urbanistico e della incuria verso il patrimonio edilizio storico. Costi, si badi bene, che nel caso specifico non vanno calcolati solo in base alle distruzioni avvenute e alle ricostruzioni di là da venire della cui qualità già oggi si può temere, ma tenendo anche conto del fatto che, mentre certamente permarranno tutte le cause del malessere socio-economico che affligge da secoli quelle regioni, sarà invece andata perduta per sempre, con la scomparsa dell’edilizia antica, l’unica condizione per cui le popolazioni locali potevano riconoscersi in una comunità e sentirsi legate alla propria terra. Come è ben noto, in economia è molto difficile tener conto di fattori imponderabili come quello ora accennato. Cosa può rappresentare, in termini economici, l’attaccamento affettivo d’una comunità a un abitato plurisecolare, e, per contro, il trasferimento forzato in un nuovo abitato della cui qualità estetica non vogliamo giudicare a priori, ma di cui comunque sappiamo che in nessun caso potrà soddisfare non diciamo per secoli, come nell’altro caso, ma forse nemmeno nell’immediato l’umanissimo sentimento di appartenenza e immedesimazione dell’abitante alla cosa abitata? Ebbene noi diciamo che se la perdita di questo sentimento certamente riduce su un punto essenziale il quantum di felicità dato agli uomini su questa terra, una perdita del genere non ha rilevanza economica solo per un’economia che non tenga in nessun conto i valori morali, semplicemente perché non sa come assoggettarli ai meccanismi del mercato. Ci vorrebbe assai poco, una volta saputo che quasi metà della nazione è esposta a rischio sismico, proiettare su questa scala le perdite subite in Irpinia, e calcolare il corrispettivo danno economico che incombe sulla penisola ove persistesse, come purtroppo certamente persisterà, l’assenza di ogni politica di difesa del suolo e di consolidamento preventivo dell’edilizia storica. Tuttavia, è per la natura culturale dei nostri interessi che dobbiamo pretendere che essi non vengano in primo piano solo in occasione delle calamità riconosciute per legge, ma valgano piuttosto da «indicatori» dello stato di calamità permanente a cui il territorio nazionale è sempre più esposto, ben al di là della sua classificazione in zone più o meno sismiche. Chiunque sia stato nelle zone terremotate sa che, sullo sgomento per le devastazioni, finisce sempre per prevalere la costernazione per lo stato di cose precedente alla catastrofe. In altre parole, non ci si stupisce tanto dei danni, quanto del fatto che non si siano verificati prima: talmente estremo risulta lo stato di degrado a cui l’esistente si era comunque già ridotto in condizioni diciamo così di normalità. Da questa constatazione è giusto che scaturisca un sentimento d’indignazione per quello che non si è fatto. Ma a una riflessione più approfondita ci si accorge che darne la colpa a chicchessia (Stato, regioni o municipalità), soddisfa forse il nostro senso morale, ma non ci porta molto avanti nella comprensione di un fenomeno che, per la sua portata e diffusione su pressoché l’intero patrimonio edilizio storico, mette in causa piuttosto il tipo di civiltà in cui viviamo che determinate istituzioni o leggi. Detto questo, è però necessario ancora uno sforzo di approfondimento, perché se è chiaro che la civiltà industriale è dappertutto la causa prima del dissesto ambientale e del cattivo uso delle risorse naturali del pianeta, è meno chiaro come mai una così smisurata forza distruttiva, caratterizzata dalla rapidità e dagli effetti a catena dei suoi processi, di fronte ai cosiddetti beni culturali, e in particolare di fronte al patrimonio edilizio storico, abbia scelto di agire, nella generalità dei casi, con i mezzi indiretti dell’inquinamento e nei tempi lunghi o lunghissimi dell’incuria e dell’abbandono. 

Per paradossale che sembri, e posto che incuria e abbandono siano preferibili alla pura e semplice distruzione, ritengo che sia intellettualmente onesto riconoscere che, su questo specifico capitolo della sopravvivenza del patrimonio storico, alla civiltà industriale non può essere imputato che di essersi disinteressata del problema, o per meglio dire di aver mutuato dallo spirito dell’epoca una maniera di porre il problema per cui le testimonianze del passato vengono sì riconosciute come beni o valori di notevole pregio, e quindi meritevoli di sopravvivere, ma lasciando che a questa sopravvivenza provveda più la naturale forza d’inerzia per cui tali beni sono giunti fino a noi, che noi stessi con azioni coerenti e commisurate allo scopo. 

Se le cose, come credo, stanno così, la nostra protesta per lo stato in cui versa il patrimonio storico-artistico è quanto meno sempre tardiva, perché avrebbe dovuto essere preceduta, e da molto tempo, dalla consapevolezza, o meglio dallo scandalo che la condizione prima della sopravvivenza di questo patrimonio stia nel puro e semplice riconoscimento del suo valore ideale, non accompagnato da nessuna azione intesa a integrare questo valore nei nostri modi di vita. Questa contraddizione è destinata a non sciogliersi fintanto che sul passato non sapremo portare il nostro sentimento estetico o i nostri interessi di studiosi, lasciando in sospeso il problema essenziale: quale sia il senso della presenza del passato nel mondo d’oggi (...). Per questo diciamo che (...) i beni culturali [devono] divenire una risorsa impiegabile per una politica di sviluppo tesa a ristabilire un certo equilibrio tra sistema socio-economico e sistema ambientale, come condizione prima per il recupero di una migliore qualità della vita o, come preferiva dire Bertrand de Jouvenel, per il «passaggio da una società quantitativa a una società qualitativa». Giovanni Urbani

Bruno Zanardi, 11 settembre 2016 | © Riproduzione riservata

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