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«Autoritratto 2019» di Francesco Vezzoli

© Francesco Vezzoli

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«Autoritratto 2019» di Francesco Vezzoli

© Francesco Vezzoli

Vezzoli: «Sono come un disc jockey che mette insieme Salieri, Vivaldi e Diana Est»

«Anche Scarpa, Warhol, Bellini e il doge Leonardo Loredan: per me sono la stessa persona». L’artista dell’anno 2025 di «Il Giornale dell’Arte» è una delle più singolari figure italiane del dopoguerra ad avere ottenuto rilievo internazionale. «Fin da bambino abbinavo la modernità alla storia»

Donatien Grau

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Francesco Vezzoli è nato a Brescia nel 1971. Nell’adolescenza ha frequentato musei e cinema e si è nutrito di cultura pop italiana. A metà degli anni Novanta si è recato a Londra per studiare alla Central Saint Martins, la principale scuola d’arte e di moda che ha prodotto un’intera generazione di artisti e designer. Era l’epoca degli Young British Artists, che davano dell’arte concettuale una versione più shocking. Ma Vezzoli stava già guardando altrove, cercando un’altra fonte tra gli artisti queer britannici, quella di Derek Jarman, morto pochi anni prima. Ha così inizio il suo ormai famoso lavoro di ricamo di lacrime, che combina immagini pop e storiche a una pratica intima e notturna e lo porta a esporre nelle principali gallerie d’arte contemporanea. Il fenomeno Vezzoli era ormai lanciato.

Il passo successivo è stato quello di trasferirsi a New York, dove ha trascorso gli anni 2000: gli Stati Uniti, l’utopia del pop, del glamour e della celebrità, l’alleanza fatta da Warhol tra l’estetica queer, il sogno della storia e la schiuma del presente, la traduzione dell’eredità europea in un mondo nuovo e invecchiato. Attraversando l’Atlantico, tra Italia e Stati Uniti, Vezzoli realizza una serie di film che giocano con le forme della pubblicità, del cinema, della musica e del video d’arte per dare una visione distorta dell’esistenza umana. Nel 2002 il New Museum di New York ha celebrato il suo lavoro, aprendo la strada a quattro partecipazioni alla Biennale di Venezia e a un flusso di mostre museali che da allora non si è mai interrotto.

Negli anni 2010 ritorna in Europa. Francesco aveva previsto l’era della spettacolarizzazione integrata che il mondo dell’arte stava per vivere e avvertiva la necessità di ricentrarsi, di ridefinire lo spazio delle origini. Tornato a Milano, si confronta con il patrimonio storico e decostruisce la percezione che potremmo avere di un passato percepito come sicuro, ma che in realtà è stato ridefinito lungo il percorso. Le sculture romane e le rivisitazioni moderne rappresentano tante fasi di un rapporto con il passato che in realtà è un rapporto con sé stessi e con il presente. Se porta una coscienza queer nell’archeologia, è per ricordarci con rossetto, smalto e integrazioni che l’immaginario della classicità, e quindi della norma, non sono affatto scontati, ma costruzioni.

Inizio anni 2020: Francesco viaggia per il mondo. Continua il suo ciclo sull’archeologia, ricama di notte, inventa situazioni che sono opere d’arte senza cristallizzazione, apre la strada a un lavoro interstiziale che fa già parte della storia, pur essendo molto presente. Soprattutto, dimostra costantemente che cosa può essere l’arte se rifiuta l’ideologia dominante dell’opera: il suo vero lavoro è creare una presenza il più possibile aperta e consapevole

La sua attuale mostra in corso al Museo Correr di Venezia ha molto a che fare con Carlo Scarpa. Lei è nato a Brescia, non lontano da Verona dove il Museo Civico di Castelvecchio è stato riconfigurato proprio da Scarpa. Fa parte della sua storia?
Fa parte della mia storia e ha a che fare con tutte le cose che amo e che vorrei tornassero a venire prese in considerazione e studiate nel dibattito internazionale. Penso che l’approccio scarpiano alla museologia sia un approccio interessantissimo.

Scarpa ha inventato un modo moderno di lavorare con il patrimonio: non c’è una separazione in termini temporali tra ciò che è moderno e ciò che è patrimonio. Questo «dialogo temporale» è un elemento centrale anche del suo lavoro dalla metà degli anni Novanta ad oggi.
Scarpa è stato uno dei più grandi interpreti dell’abbinamento di queste differenti «velocità» e anche per me è fondamentale rileggere una mia storia. La mia famiglia da bambino mi portava spesso a vedere le mostre dell’Arte Povera, alle quali dovevo collegare l’immaginario che mi proveniva dall’educazione tradizionale, dalla posizione reazionaria delle mie nonne con le quali vivevo spesso, per cui fin dall’inizio ho dovuto imparare a convivere con la necessità di abbinare la modernità alla storia. Io ero la modernità, le nonne erano la storia.

In alto, «La nascita di American Gigolò (after Sandro Botticelli)» (2014); sotto, «Selfie Sebastian» (Self-portrait as St. Sebastian by Andrea Mantegna) (2009-14) di Francesco Vezzoli alla mostra «Francesco Vezzoli Musei delle Lacrime» al Museo Correr di Venezia. Cortesia dell’artista & Galleria Franco Noero Foto Melania Dalle Grave @Dsl Studio - Venice International Foundation

In questo confronto tra i tempi c’è anche un aspetto queer, che è una contraddizione della normalità.
Forse questa è la domanda più importante perché mi dà l’opportunità di spiegare qualcosa che magari alle generazioni più giovani può sembrare meno chiara. Per chi è della mia generazione, l’identità queer per sopravvivere dentro la società doveva per forza mediare, essere erudita e imparare a tradurre diversi linguaggi. Percepiva la propria diversità ma doveva trovare un dialogo con la società. Pensi a quante volte Derek Jarman utilizza la storia per parlare della sua identità. Lo stesso fa anche Pier Paolo Pasolini quando usa Boccaccio. 

Dunque la preparazione intellettuale è uno strumento di protezione. Il passato viene utilizzato come strumento di dominazione. Quello che lei fa è usare gli stessi strumenti ma da un punto di vista diverso.
Da un punto di vista ribaltato, direi. Nella mia vita mi sono sentito a volte più emarginato in una palestra gay di Los Angeles che in un’aula del Liceo classico. È vero che da un certo momento della storia in poi la classicità è stata usata per la dominazione, ma c’è anche una chiave di lettura più neutra; ad esempio la lingua latina ha tre generi: maschile, femminile e neutro. 

Nella sua opera non si mette mai al centro.
Guardo da dietro il vetro. Mi ricordo di grandi confronti con Germano Celant. I miei primi lavori gli piacevano, però un giorno mi ha detto: «Adesso tu devi entrare nella performance». Gli ho risposto che ero troppo timido e ha ribattuto: «Se tu non entri dentro la performance, il tuo è solo un bellissimo film. Se invece tu entri, diventa una tua opera d’arte». Ha usato proprio queste parole e io da allora non le ho mai dimenticate. Per questo ora cerco ogni tanto di portarmi al centro. 

Accanto a lei c’è sempre stato anche un aspetto pop (eccessivo secondo alcuni), benché nel suo lavoro abbia sempre inteso raccontare contemporaneamente anche il contrario. 
A me piace molto rispecchiarmi in questa frase: «La paura è desiderio e il desiderio è paura». Potere e desiderio sono parte di noi. I tabù fanno parte di noi. Ci sono persone, anche molto realizzate, che non hanno mai voluto confrontarsi con gli aspetti più profondi della propria personalità. Io provo a raccontare anche questa dimensione: l’artista che vuole avvicinarsi all’artista star. Come Icaro: tu sei un artista figurativo, ma voli vicino a una stella di Hollywood e rischi di bruciarti.

È un aspetto sperimentale del suo lavoro, ha sempre voluto provare cose diverse. 
Sono molto affascinato da chi cambia. Essere capaci di cambiare è una prova di grande bravura.

Locandina di «Greed, a New Fragrance by Francesco Vezzoli»(2009) con la partecipazione di Natalie Portman e Michelle Williams. Cortesia dell’artista & Apalazzzogallery Foto: Melania Dalle Grave. @Dsl Studio - Venice International Foundation

Questo mi ricorda una delle sue opere di 15-20 anni fa con due ritratti di lei stesso: in uno si rappresentava come un vampiro, nell’altro come un hipster. In lei c’è sempre stata questa sorta di identità duale?
Sì, assolutamente. C’era un disco di un cantante che mi piaceva molto quando ero bambino che si chiamava Polisex. Questa parola per me implicava già la dualità, la moltiplicità di identità, la fascinazione per la capacità di cambiare. Da giovane uscivo alla sera e alle otto andavo in un club per soli uomini super esclusivo; alle due del mattino mi trovavo nel locale più sordido di Soho. Il mio orgoglio era quello di parlare tutte queste lingue e di avere accesso a tutti questi contesti diversi. 

Questo si ritrova nella sua arte: ci sono diverse chiavi di lettura per ciascuna delle sue opere. 
Penso che la stratificazione sia molto importante. Avevo un professore che spiegava che quando metti tutti i colori assieme e li mescoli velocemente, prima si forma il colore nero e successivamente il bianco. Ecco, questa capacità di mescolare tutte le cose a grande velocità è la qualità che ti dà l’impressione di raggiungere una conoscenza più solida. In me c’è sempre stata fame di conoscenza. Questo ovviamente si rispecchia anche nella mia pratica artistica perché, per me, avere avuto in un mio video Cate Blanchett o avere una recensione positiva di Salvatore Settis hanno lo stesso valore.

È il gesto culturale della sua opera: lei ha capito vent’anni fa che aspetti diversi possono stare sul medesimo piano e livello.
Tuttora per molte persone non è ovvio, anche se la società è diventata esattamente questa. Già prima dei social media la società dava segnali di sovrapposizione. Poi con l’arrivo dell’era digitale tutto si è davvero sovrapposto per cui è fondamentale avere molte chiavi di lettura. Non si può essere solo dei grandi curatori, bisogna essere anche dei bravi antropologi e capire com’è il mondo là fuori. Celant aveva dimostrato proprio questo: si era laureato in arte barocca, ha inventato l’Arte Povera e poi è andato a New York a curare mostre di Mapplethorpe, Warhol ecc.

Per lei ha senso l’idea di un’evoluzione della storia, della ricerca di nuove forme, di un progresso nella storia dell’arte...
Sì, per me sì, anche se ho un modo un po’ accademico di pensare. Secondo me l’artista deve raccontare la propria identità però deve anche cercare di farlo attraverso più percorsi di esplorazione, nel senso dei Latini: «Est modus in rebus». Io devo raccontare l’identità nella sua evoluzione: devo progredire e devo far progredire chi lavora con me come io sono stato beneficiato studiando il lavoro degli altri….

Le sue opere hanno sempre voluto avere un effetto diretto sul pubblico ma, nello stesso tempo, lei rimane una figura d’élite intellettuale e culturale. Una cosa che piace molto del suo lavoro è che riesce a esprimere una visione chiara e a produrre delle opere potenti.
Più che potenti. Per me non sono le cose singole a contare, ma il loro insieme, perché questo mi consente di rimanere a contatto con la contemporaneità. Se questa è una forma di potere, allora diciamo che cerco il potere. È proprio una mia esigenza interiore.

Qual è il suo potere? 
Io non credo di avere potere. Per esempio non avrei il potere di raccomandare un artista, non ho potere in questo senso... Una persona molto intelligente, che lavora con i più grandi attori del mondo, una volta mi ha però detto che secondo lui ho un grande potere di seduzione. Io non ritengo di averlo, perché non sono mai riuscito a sedurre i ragazzi di cui ero innamorato. Però lui mi ha detto che nel mio lavoro sono stato un incredibile seduttore. Ecco, forse ho questo potere.

E qual è il potere delle sue opere?
È difficile. Se uno si impegna a osservarle, sono opere che ti costringono a pensare. Direi che le mie sono opere più attive che passive. Possiamo dire così? 

Così come?
Secondo me quando guardi un mio lavoro vedi che c’è un pensiero dietro: in un angolo, in un piedistallo, nell’audioguida... Il mio modo di fare arte è fin troppo denso di pensiero, credo.

«Crying Portrait of Cindy Crawford as a Renaissance Madonna with Holy Child (after Andrea Mantegna)» (2010) di Francesco Vezzoli. Cortesia dell’artista

«Achille!» (2021) di Francesco Vezzoli. Cortesia dell'artista, Apalazzogallery & Galleria Franco Noero. Foto: Alessandra Chemollo

Uno degli aspetti che ritengo interessanti del suo lavoro è che lei trova piacere nell’influenza degli altri. Ci sono relazioni tra la sua idea di influenza, di individualità e le sue relazioni con la modernità?
Io non ho paura di essere influenzato da nessuno. Anzi, penso che dichiarare le proprie influenze sia come comporre degli «haiku», delle poesie giapponesi, delle dediche. Vorrei che molti artisti che a volte non capisco avessero fatto più dichiarazioni delle proprie influenze perché così riuscirei a capire meglio la loro arte. Io l’ho fatto sempre. Per esempio quando volevo rappresentarmi sia al femminile sia al maschile, andavo da Scavullo e gli chiedevo di fotografarmi. Avrei potuto anche fotografarmi da solo, ma in quel gesto volevo mettere una mia dedica d’amore per la fotografia glamour americana degli anni ’70. Harold Bloom la chiama «Anxiety of Influence», io la chiamerei nel modo opposto: l’estasi dell’influenza. Anche perché più si va avanti, più la storia dell’arte si estende e quindi come si fa a non gioire di essere influenzati...

È questa anche la sua relazione con la contemporaneità?
Sì, sono come un disc jockey.

Ma un disc jockey che mette Salieri, Vivaldi e Diana Est.
Esatto, anche tutti insieme. Metto la base di Diana Est e poi mixo con un po’ di Salieri e di Mozart.

Trovo molto interessante ciò che ha detto sul fatto che il suo lavoro è un ponte tra i vari tempi della storia. Nella mostra al Correr, ad esempio, quando crea l’opera con il ritratto del doge Loredan e con il ritratto di Scarpa fatto da Warhol, ci dice che per lei Warhol, Loredan, Bellini e Scarpa fanno parte dello stesso mondo...
Questo ce lo insegna la letteratura latina o Shakespeare, che peraltro si rifaceva molto alla letteratura latina. Penso che ci siano dei minimi comuni denominatori del teatro sociale e culturale che non cambiano mai e quindi per me è abbastanza facile pensare che Scarpa, Warhol, Bellini e il doge siano un po’ la stessa persona. Perché in fondo sono tutti diverse declinazioni del rapporto con il potere. Scarpa non aveva neanche la laurea in architettura ed è stato ostracizzato, probabilmente ostracizzato tanto quanto Warhol da certi critici puristi americani che non vedevano in lui delle qualità tecniche o morali. Per me è sempre una questione di rapporto con il potere. Probabilmente perché nel momento della sua nascita, l’identità queer, essendo di per sé «diversa», crea uno scontro col potere: è il primo shock. Questo ti rimane come un imprinting. Quando si prende coscienza della propria l’identità queer (che può avvenire a 5 anni come a 15) ti rendi conto che il mondo attorno a te è diverso dalla tua identità e quindi, inevitabilmente, senti una tensione col potere. Io poi penso che la avvertano tutti. Sicuramente il mondo queer della mia generazione avvertiva in modo forte questa tensione e quindi per me il tema del rapporto problematico con il potere è centrale. 

Le sue prime opere risalgono ormai a un trentennio fa, quindi adesso anche lei fa un po’ parte della storia. Come vede questa sua «storicità» all’interno della nostra epoca? Essere cioè una figura contemporanea, ma allo stesso tempo anche storica...
Rispondo con una cosa che mi è successa ieri sera. Una delle prime persone che ha sostenuto il mio lavoro è stata Cristiana Perrella e ieri abbiamo avuto una lunghissima conversazione sullo stato dell’arte contemporanea italiana e internazionale di oggi. A un certo punto della conversazione lei mi ha chiesto: «Tu rifaresti oggi tutti i lavori che hai fatto in passato?». Io le ho detto: «Assolutamente no!». In effetti, non li farei neanche rivedere a qualcuno, a meno che non sia in un contesto critico. Lo dico perché il mondo è diventato come quei lavori. Vivo in una città come Milano dove il sistema dominante è quello del glamour. Ho cercato di parlare nell’arte del fatto che questi sistemi sarebbero diventati dominanti. Ho fatto una Biennale di Venezia con addosso un vestito di alta moda di Valentino e molte persone non mi hanno preso sul serio. E allora nemmeno io mi prendevo sul serio... Però adesso sì e dico a tutte quelle persone: «Ve lo dicevo che questo sarebbe diventato un sistema dominante, ma non ci volevate credere». Poi però lo è diventato. È questo il motivo per il quale non rifarei quei lavori. Ne voglio fare degli altri perché mi sembra di avere già visto il mondo che vedo attorno a me oggi. Avevo anzi combattuto perché le persone del mondo dell’arte capissero che quello era il mondo che ci aspettava.

Quale opera desidera realizzare in futuro?
Vorrei sicuramente chiudere in maniera trionfale il mio ciclo sull’archeologia con il progetto del museo sul quale sto lavorando a Roma. Poi dovrò cercare di immaginarmi il mio terzo atto. Gli artisti davvero bravi arrivano al quarto, io devo immaginarmi il terzo...

«Madonna del Pane con Lacrime Nere» (2024) di Francesco Vezzoli. Cortesia dell’artista & Apalazzogallery, 2024

Donatien Grau, 11 novembre 2024 | © Riproduzione riservata

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