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«Iolaus/In the Life (Once Again... Statues Never Die)» (2022) di Isaac Julien. © Isaac Julien. Cortesia dell’artista e di Victoria Miro, Londra

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«Iolaus/In the Life (Once Again... Statues Never Die)» (2022) di Isaac Julien. © Isaac Julien. Cortesia dell’artista e di Victoria Miro, Londra

Whitney Biennial 2024, un’edizione senza mordente

Molte opere della settantina di artisti presenti all’81ma Biennale newyorkese sono deboli e poco convincenti, ma non mancano le eccezioni

Luciana Fabbri

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«Un coro dissonante»: così le curatrici Meg Onli e Chrissie Iles introducono l’81ma Whitney Biennal, la rassegna di arte contemporanea che dal 1932 nel  Whitney Museum of American Art di New York si propone di presentare un ritratto dell’arte americana. Visibile fino all’11 agosto e Intitolata «Even Better Than The Real Thing», la mostra presenta le opere di 69 artisti e due collettivi che riflettono sulla volontà di creare una coesione sociale in un mondo frammentato. Il titolo si concentra sulla nozione di «reale», che più che di Intelligenza Artificiale, riguarda questioni di identità e autonomia del corpo, sul fatto che gruppi di persone storicamente emarginate per via della loro diversità, di razza o di genere, sono stati considerati alla stregua di persone reali, come subumani.

Allestita tematicamente su due piani del museo, la rassegna dà un ampio respiro alle opere che esplorano temi riguardanti la fluidità di genere, i diritti degli indigeni, la razza, l’aborto, la distruzione ecologica e la gentrificazione. Nonostante l’urgenza di questi dibattiti, la loro articolazione nelle opere è in molti casi debole o poco convincente, se non con l’aiuto dei pannelli esplicativi. Ma ci sono anche notevoli eccezioni.

Un’analisi profonda su temi di memoria storica, eredità coloniale e restituzione viene affrontata da Isaac Julien (Londra, 1960) nell’opera «Once Again… (Statues Never Die)» (2022): una videoistallazione immersiva che esplora la relazione tra Albert Barnes, uno dei primi collezionisti ed espositori di arte africana, e il filosofo e critico culturale Alain Locke, considerato il padre della Harlem Reinassance (il primo movimenti di arte moderna guidato da afroamericani). Ispirato al libro The New Negro and the Life of Alain Locke, l’artista immagina il primo incontro tra Locke e la collezione di Barnes e comincia un dibattito critico tra i due riguardo alla centralità dell’arte africana nella storia dell’arte moderna.

Cinque schermi sono disposti secondo diverse angolazioni, in modo tale da porre Locke e Barnes uno di fronte all’altro. All’interno dell’installazione sono esposte anche due sculture degli artisti Richmond Barthé (1901-89) e Matthew Angelo Harrison (1989), che avviano una conversazione sull’eredità degli artisti neri che si estende oltre la storia moderna. «Questi dibattiti sulla restituzione risultano complessi per via delle storie di assoggettamento coloniale in particolare in Africa occidentale, ma quello che non è molto discusso invece è come queste opere d’arte africana siano riarticolate e come abbiano influenzato gli artisti afroamericani e lo stesso Locke». Il film, infatti, è ambientato nell’anno in cui Locke visitò il museo nel 1924, un anno prima di pubblicare The New Negro (1925). Julien si interroga sull’origine dei dibattiti che queste statue continuano a mantenere accesi.

Incerti se entrare o meno in quello che a una prima occhiata sembra un ripostiglio, ci troviamo in realtà di fronte a un’installazione di Ser Serpas (Los Angeles, 1995). L’artista crea le sue sculture con rifiuti e oggetti di scarto trovati per strada. Un carrello rovesciato con una palla da discoteca sulla sommità è appoggiato su un attrezzo da palestra. O ancora, un tronco d’albero fa da base a un sedile di pelle alle cui spalle è appoggiata una lastra di legno. La stanza è allestita come se fosse lo studio dell’artista, con il pavimento e una parete coperti da uno strato di plastica e alcuni palloncini quasi sgonfi sparsi per la stanza. Sono opere che fanno riflettere sulle aspettative di valore che riponiamo nell’arte, e sulla sua posizione all’interno di un più ampio sistema di relazioni con il mondo circostante. Nonostante una prima impressione caotica, le opere posseggono una certa armonia nel loro antropomorfismo, che le apre a molteplici interpretazioni e associazioni.

Proseguendo nel percorso espositivo, troviamo i dipinti di Suzanne Jackson (St. Louis, 1944), allestiti al centro della stanza e alle pareti. L’artista applica la vernice acrilica su fogli di plastica e compone figure astratte e motivi naturali. I dipinti vengono poi appesi ad asciugare come fossero lenzuola, consentendo all’artista di aggiungere strati di colore, senza avere bisogno del supporto tradizionale della tela. Le «Astrazioni ambientali», così le definisce l’artista, incorporano, insieme alla vernice, materiale di scarto proveniente dal suo studio: reti di plastica, residui di tempera o gusci di frutta secca. Questo approccio sottolinea la volontà di creare opere che siano «vive» e si relazionano all’ambiente circostante variando a seconda della luce e muovendosi dolcemente col passaggio dei visitatori.

Questa sensibilità relazionale caratterizza anche il lavoro «Paloma Blanca Deja Volar/White Dove Let us Fly» (2024) di Eddie Rodolfo Aparicio (Los Angeles, 1990). L’artista ha creato una scultura d’ambra che si erge come un muro imponente, alto poco più di una persona di altezza media, tra lo spettatore e la terrazza del museo. L’opera presenta numerose fratture, che gradualmente continueranno a disintegrarla sotto l’effetto della luce e del calore. Al suo interno si intravedono alcuni documenti relativi alle pratiche di separazione dei bambini salvadoregni al confine con gli Stati Uniti. L’artista si è impegnato nella digitalizzazione e archiviazione di documenti riguardanti la crisi migratoria dell’America Centrale negli Stati Uniti, preservando memorie e testimonianze storiche spesso cancellate o offuscate. L’ambra è una resina che oltre ad avere qualità curative per l’albero su cui si forma, interessa l’artista per la sua storia materiale, che ha origini nelle comunità indigene dell’America Centrale e del Sud.

Nella videoperformance «TRAY TRAY KO» (2022), la cilena Seba Calfuqueo (Santiago del Cile, 1991) pratica un rituale Mapuche, immergendo il suo corpo nella natura rigogliosa. L’artista trasporta un lungo telo blu metallizzato attraverso il bosco e sembra immedesimarsi nel corso d’acqua che lo attraversa, per arrivare fin sotto al getto energico della cascata scrosciante. L’inquadratura evidenzia la prospettiva del corpo dell’artista che si fonde con l’ambiente naturale. Priva di dialoghi umani, nella videoperformance si sente solo il tintinnio degli orecchini di Calfuqueo, il cui lavoro si incentra sull’idea della cascata come luogo sacro nella cosmologia Mapuche, per via della sua prossimità a piante ed erbe medicinali. La brevità e semplicità di esecuzione rendono quest’opera particolarmente efficace nel mostrare la connessione sacra e culturale tra l’uomo e l’ambiente, attualmente minacciato dal suo sfruttamento per scopi commerciali.

Queste opere costituiscono un’eccezione all’interno di una biennale che si presenta come politicamente progressiva ma che, come nel caso della scultura di Kiyan Williams (Newark, 1991) raffigurante la Casa Bianca in procinto di crollare, esposta sulla terrazza del museo, lo è in maniera superficiale, o priva di mordente.
 

Luciana Fabbri, 30 marzo 2024 | © Riproduzione riservata

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