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Francesco Scoppola
Leggi i suoi articoliAlberto Ronchey viene nominato ministro per i Beni culturali nel 1992, in seguito all'unico incarico interinale sino a quel momento assunto al Collegio Romano, che concludeva una sequela di esponenti del Psdi (Partito Social Democratico Italiano) straordinariamente stabile (quasi tre anni, dal 1987 al 1991, con la staffetta tra Carlo Vizzini, Vincenza Bono Parrino, Ferdinando Facchiano): in questo ministero tre incarichi consecutivi ad esponenti dello stesso partito non li aveva superati nemmeno la Dc.
La sua azione si colloca dunque tra due tempi di centro e di destra: ai Beni culturali si inserisce a inizio estate di quell'anno un ministro tecnico indipendente, non politico. Un uomo di penna e di pensiero, un professionista della legge, dell'informazione, del continuo aggiornamento.
Alberto Ronchey (a distanza di 27 anni da allora lo possiamo dire) regge i Beni culturali in uno dei momenti più critici e difficili della loro storia ormai prossima al mezzo secolo. La durata del suo incarico di Ministro, nei due governi Amato e Ciampi, va dal 28 giugno 1992 al 10 maggio 1994. Al Collegio Romano il suo incarico segue l'interim di Giulio Andreotti, mentre dopo di lui si insedia Domenico Fisichella.
In quasi due anni sono molti i nodi che vengono al pettine: il discredito in precedenza gettato sulla pubblica amministrazione ha già prodotto e continua a produce i suoi effetti e occorre privatizzare. Intanto crescono le pretese senza fine per i lavori eseguiti in concessione. Gli eccessi di frammentazione e di interpretazione della realtà in chiave solo economica (o prevalentemente economica) richiedono ormai da tempo che ogni settore sia produttivo e non che sia produttivo in misura maggiore possibile il paese nel suo insieme, anche se in alcuni plessi rende e in altri chiede sostegno. È venuta meno da tempo una visione organica d'insieme che Ronchey cerca di restituire senza entrare in collisione con le richieste emergenti dalle nuove miopie originate da eccessi di settorializzazione.
Non solo in Italia, ma in generale nel mondo il principio di Stato e di servizio pubblico è in crisi, si consolida la confusione tra spesa e investimento. Sotto il profilo della Giustizia si inaspriscono le tensioni tra le diverse componenti del paese con le condanne «fine pena mai» e con i gravissimi delitti che seguono.
La criminalità organizzata sembra alle corde, ma cambia radicalmente strategia e conquista il potere. Esplodono le bombe in danno al patrimonio culturale e al turismo, contro la cittadinanza. Le stragi sono meno gravi di quanto poteva verificarsi, ma i morti sono 10, 60 i feriti.
I monumenti gravemente danneggiati sono quattro. A Roma (al Velabro e in Laterano, gli ordigni esplodono miracolosamente senza recare danni alle persone), a Firenze (Uffizi e Georgofili, con 5 morti e 48 feriti) e a Milano (con 5 morti e 12 feriti): due chiese con i manufatti archeologici limitrofi a Roma, la Galleria degli Uffizi e un istituto a Firenze, la galleria d'arte moderna e il padiglione d'arte contemporanea a Milano. Ai Beni culturali va in questo periodo un triste primato di obiettivo della violenza malavitosa che non risparmia certo altri settori, a partire dai giudici. Tra il 1992 e il 1993 le bombe della criminalità organizzata uccidono in Italia 21 persone.
Ronchey affronta e supera questa fase dolorosissima e cupa con il coraggio dell'innovazione e con la fiducia che tutto possa comunque migliorare. Chiama Daniel Berger dagli Stati Uniti. Coinvolge Federico Zeri per frequenti confronti, senza timore di guardare con ogni possibile competenza ad orizzonti che paiono piuttosto abissi, a tutto quello che non va. Con realismo ma senza indulgere al pessimismo affronta le numerosissime criticità emergenti.
Crea un piccolo gruppo fiduciario di giovani collaboratori incaricati di redigere epitomi delle questioni urgenti e complesse: un intero carrello di carte accumulate nel corso degli anni all'occorrenza in poche ore deve diventare mezza pagina, senza trascurare nulla. Metodo e tempi restano quelli del giornalismo. Istituisce i servizi aggiuntivi nei musei. Riprende il progetto degasperiano della Galleria Nazionale di Arte Antica entro il palazzo Barberini nella sua interezza.
Inaugura il restauro dello studiolo di Augusto, i marmi Ludovisi finalmente vengono progressivamente riesposti al pubblico nella nuova sede del museo nazionale romano dedicata alla storia del collezionismo antiquario, realizzata dalla Soprintendenza Archeologica di Roma entro palazzo Altemps. Fissa il principio di riconoscimento delle royalties allo stato. In un momento tanto difficile nel quale altri non avrebbero esitato a dichiarare lo stato di emergenza, a lanciare un «si salvi chi può», o si sarebbero limitati a mettere al sicuro solo qualcosa scelto in tutta fretta, Ronchey studia pacatamente ogni strumento possibile per dare in generale nuovo slancio al ministero a lui affidato.
Alla fine, per tutta ricompensa, ottiene molte immotivate accuse: insieme con Francesco Sisinni per villa Blanc, insieme con Adriano La Regina per Caracalla. In molti vogliono bruciarlo, come ministro, come tecnico non politico al servizio di tutta la collettività e non di una sola sua parte, perfino forse come potenziale aspirante alla carica di sindaco di Roma. Con lui tramonta la politica dei partiti della quale per un verso è stato l'ultimo lume, per l'altro la prima alternativa.
Crede pazientemente nel merito, nelle competenze per settori disciplinari, nelle idee e nella capacità di tradurle in pratica, senza temere le imperfezioni o le rinunce legate alla loro concreta attuazione. Dopo di lui prevale in misura progressivamente crescente una politica senza partiti, senza ideali, per sigle e slogan sempre diversi e sempre uguali, ridotta a pubblicità e immagine di autopromozione individuale o lobbistica, asservita e prona alle sempre maggiori concentrazioni di interessi.
La legge attuata in due tempi che prende il suo nome è l'ultimo episodio saliente di programmazione e di progetto nel settore del patrimonio culturale prima della capitolazione della dirigenza pubblica con la legge Bassanini, prima del testo unico, del Codice, della nuova stagione di impennata esponenziale del processo di riforma continua.
Ronchey, laureato in giurisprudenza, repubblicano di formazione, già allora ha scritto per molte diverse testate: «La Voce Repubblicana» della quale è stato direttore, «Il Mondo», «Il Resto del Carlino», «La Stampa», il «Corriere della Sera», «La Repubblica». Non è certo comunista, anzi è anticomunista e cerca risposte equilibrate in quella difficile stagione conclusiva della guerra fredda, ma simmetricamente resiste al disprezzo del pubblico interesse, alle tesi della privatizzazione selvaggia.
Con lui il Ministero attraversa indenne e anzi irrobustito un difficile e rischioso guado. Dopo di lui quel dicastero giovane, debole e fragile è diventato molto più solido e difficile da fagocitare: Ronchey in neanche 23 mesi di duro e continuo quotidiano lavoro (interrotto solo da un pezzo di pizza con una fetta di mortadella, senza lasciare la stanza) ha salvato a lungo un intero settore strategico del pubblico interesse, da sempre sotto assedio.
A differenza di quello che avviene di solito, nel suo caso l'incarico di governo al servizio del paese riduce temporaneamente di molto, a meno di un terzo, il suo reddito, con la sospensione della attività giornalistica, a fronte della sola indennità di governo, senza la corresponsione delle prebende parlamentari.
Con lui si verifica una sorta di ritorno alle origini e di simultanea corsa verso il futuro: guardando in entrambe le direzioni prosegue infatti l'opera di Giovanni Spadolini, di Oddo Biasini mentre prepara quella di Antonio Paolucci. Non certo solo per quel poco che si è qui potuto accennare di Alberto Ronchey, ma per tutto quanto ha operato, nel decennale della sua scomparsa finalmente gli giunga unanime, sia pure tardiva, riconoscente memoria, ammirazione e gratitudine.
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