Image

Una veduta della sala dedicata ad Hans Haacke nel Padiglione Centrale con, in primo piano, «Blue Sail» (1964-65)

Image

Una veduta della sala dedicata ad Hans Haacke nel Padiglione Centrale con, in primo piano, «Blue Sail» (1964-65)

Il caos e il pathos

Image

Franco Fanelli

Leggi i suoi articoli

La Biennale di Enwezor è una mappa delle emergenze e delle ansie nel mondo, che si intersecano tra politica, storia e conflitti

Nel 2002, quando Okwui Enwezor era direttore di documenta a Kassel, molti si chiesero perché la mostra avesse un carattere così poco «artistico» e, al contrario, molto orientato verso la politica e gli aspetti sociali. La risposta più ovvia era che il curatore proveniva da studi di scienze politiche, ma la realtà era che, secondo lui, il sistema dell’arte contemporanea aveva ormai raggiunto una tale diffusione che lo si poteva considerare un valido canale di comunicazione per contenuti non necessariamente limitati all’estetica. In tal senso è stato un buon profeta: nei tredici anni che sarebbero seguiti a quella discussa edizione di documenta, l’arte contemporanea avrebbe moltiplicato la sua «audience» e la sua stessa estensione in termini di circuito espositivo e di mercato, complice, indubbiamente, la crescita della globalizzazione.

A fronte di questo incremento esponenziale, aumenta proporzionalmente la responsabilità «civile» del curatore: lo mette in rilievo lo stesso Enwezor, presentando in catalogo la 56. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia. Se un artista può permettersi di voltare le spalle al mondo e rinchiudersi nell’intimismo, scrive il curatore, questo non è concesso a una mostra, che anzi ha il dovere di confrontarsi con la realtà che la circonda. E quella che emerge dalla mostra «All the World’s Futures», allestita nel Padiglione Centrale ai Giardini e all’Arsenale, è una realtà composita, caotica, multiculturale, osmotica, in perenne movimento, scossa da conflitti e da distruzioni. A differenza dalle precedenti Biennali di Venezia, dove i curatori partivano da un tema, Enwezor parte da un problema: l’arte è in grado non solo di rappresentare questa realtà, ma anche di guardare oltre, immaginando un futuro oltre questa che è una delle ricorrenti epoche storiche di transizione? Ne è scaturita una mostra complessa. Non è un trattato di scienze politiche, come paventato alla vigilia, ma un’esposizione in cui, complice anche un allestimento sapientemente dosato, non mancano episodi di forte intensità visiva: l’installazione di Thomas Hirschhorn al Padiglione Centrale, l’opera di Tania Bruguera all’Arsenale, la prima sala alle Corderie, dedicata ai neon di Bruce Nauman e alle minacciose «Ninfeee» di Adel Abdessemed e, nella stessa sede, le opere di Katharina Grosse e Kutlug Ataman o, alle Gaggiandre, le gigantesche «Fenici» di Xu Bing. E, al di là delle dimensioni e del puro impatto percettivo, che in alcuni casi si fa provocatoriamente disturbante, come nel caso dei monumenti del Raqs Media Collective ai Giardini, la mostra è disseminata di opere anche formalmente e poeticamente godibili: vengono in mente i dipinti di Ellen Gallagher e di Marlene Dumas al Padiglione Centrale, l’opera di Joana Hadjithomas & Khalil Joreige, che ha anche uno sviluppo performativo; all’Arsenale sono da segnalare, sotto questo punto di vista, la piccola monografica dedicata a Terry Adkins, i video di Cao Fei e di Chantal Ackerman, i «Reliquiari» laici di Ricardo Brey, le raffinate (ma minacciose) mappe di Tiffany Chung, il film «Vertigo Sea» di John Akomfrah, la performance di Allora & Calzadilla e il delicato intervento di Sarah Sze nel Giardino delle Vergini.

La preziosità formale di queste opere alleggerisce, almeno in parte, il peso teorico di una mostra che richiede al visitatore un forte sforzo interpretativo. E se il sapiente mix di tecniche e linguaggi, dall’installazione alla pittura, con una cospicua presenza di video e fotografia (media un po’ trascurati nell’ultimo periodo) e la stessa multidisciplinarità, che comprende lettura, musica e recitazione (in tal senso l’epicentro è l’«Arena», lo spazio teatrale ricavato all’interno del Padiglione Centrale) sono tra i punti di forza della mostra, allo stesso modo l’ossessiva insistenza sugli argomenti cari al curatore la tramuta per lunghi tratti in una faticosa catalogazione che appesantisce il ritmo generale: una sorta di «atlante» planetario su come vengono trattati argomenti come la politica, la storia, il lavoro e la guerra (ma anche il linguaggio e la parola) in varie zone del mondo. Il loro caotico intersecarsi nella gigantesca mappa composta da Enwezor, che ha scelto 136 artisti, è enfatizzato dal labirintico allestimento alle Corderie che, come nel 2013, le fraziona in un intrico di stanze, corridoi e cubicoli che, a dire la verità, può rendere faticosa la visita. Del resto proprio l’estrema apertura geografica circa la provenienza degli artisti è uno dei motivi di interesse di questa Biennale, che getta il proprio sguardo verso zone e autori al di fuori dei centri di potere dell’arte contemporanea. Anche in questo senso la Biennale apre la discussione circa il potere finanziario che domina le attuali dinamiche economiche, non escluse quelle legate al mercato dell’arte e, per restare a una delle chiavi interpretative proposte dallo stesso Enwezor a proposito della sua mostra, si misura con il neocapitalismo, giustificando la lettura non stop di Das Kapital di Karl Marx, testo tornato, secondo il curatore, di estrema attualità, lungo tutta la durata della rassegna.

Alcuni temi della mostra di Enwezor si riverberano sui padiglioni nazionali: la politica e la storia sono ben presenti, tra gli altri, in quelli albanese, cileno, sudafricano, polacco, serbo e armeno (quest’ultimo, proprio in virtù del suo contenuto, si è aggiudicato il Leone d’Oro); il tema del lavoro è affrontato nel Padiglione della Lettonia o in quello della Germania, mentre i conflitti attuali emergono in quello iracheno, in quello israeliano o, in città, nella Chiesa di Santa Maria della Misericordia tramutata in moschea (e frequentata come tale, tra le inevitabili polemiche) da Christoph Büchel per il Padiglione dell’Islanda. E ancora la storia, ma «filtrata» attraverso quella della stessa Biennale e dell’architettura dei padiglioni, caratterizza le partecipazioni dell’Austria e della Russia. Per il resto, emergono la consueta varietà di proposte e la difformità qualitativa. Dopo due belle edizioni, delude il Padiglione argentino all’Arsenale e risulta cervellotico quello spagnolo, mentre i grandi vecchi come Herman de Vries e Joan Jonasoffrono eccellenti prove rispettivamente nei padiglioni olandese e statunitense: ben più vecchia appare, per la Gran Bretagna, una Sarah Lucas che rispetto a loro ha trent’anni in meno ma che evidentemente non ha capito che i tempi di «Sensation!» sono finiti da un pezzo. L’estensione numerica delle partecipazioni nazionali, quest’anno 86 (dopo il ritiro della Nigeria, del Kenya e del Costa Rica) e la durata record di apertura (fino al 22 novembre, quasi sette mesi) è un altro elemento che contribuisce all’aumento di biglietti staccati alla Biennale e alla crescita della sua popolarità. La mostra, però, mai come quest’anno richiede ai non addetti ai lavori valide «istruzioni» per l’uso, sia per la varietà di opere proposte sia per la complessità dei loro contenuti. Il catalogo (in due tomi) non si rivela di valido aiuto per l’interpretazione della mostra di Enwezor, che ha trasformato il volume in una sorta di libro d’artista. Più utile per la visita al Padiglione Centrale e all’Arsenale la «short guide», dove però non è sufficiente la parte che riguarda i padiglioni nazionali, per i quali è meglio consultare il secondo tomo del catalogo: se è un’operazione commerciale è ben studiata, visto che il costo complessivo per il visitatore desideroso di orientamento è di 103 euro.


Una veduta della sala dedicata ad Hans Haacke nel Padiglione Centrale con, in primo piano, «Blue Sail» (1964-65)

Franco Fanelli, 04 giugno 2015 | © Riproduzione riservata

Altri articoli dell'autore

Il maestro della videoarte si è spento a 73 anni per complicazioni dovute all’Alzheimer. Lo ricordiamo con un articolo di Franco Fanelli uscito a marzo dello scorso anno nella rubrica Primattori 

I lettori del Giornale dell’Arte votano, a sorpresa, l’uomo che ribaltò ogni canone dell’arte come l’ideale «artista europeo»

L’irriverente maestro, partendo da Fluxus, ha reso arte sé stesso e le sue celebri «écritures» dalla grafia provocatoriamente infantile: «L’art est inutile», «Amo gli spaghetti», «Dimentica che mi dimentichi»...

L'8 e 9 giugno abbiamo dato il nostro voto ai politici candidati al Parlamento Europeo. Ma se le liste fossero state composte da artisti, chi avremmo eletto? Chi di loro, oggi, incarna non tanto l’europeismo, ma la cultura e la tormentata, contraddittoria storia del nostro Vecchio Continente?

Il caos e il pathos | Franco Fanelli

Il caos e il pathos | Franco Fanelli