Franco Fanelli
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Gli amici avevano soprannominato sua moglie «Sainte-Annie», perché sopportare Ben Vautier non era semplice. «Discutevano sempre, ma in realtà si adoravano e lui era inseparabile da Annie», ha dichiarato Mascha Sosno, compagna dell’artista Sacha Sosno, che li conosceva bene. Così inseparabili che poche ore dopo la morte per ictus di Annie, lui l’ha seguita, togliendosi la vita il 5 giugno nella sua abitazione di Nizza. I due si erano sposati nel 1964; a due anni prima risale un altro incontro decisivo per Ban Vautier, quello con George Maciunas, leader di Fluxus, movimento nato nel 1963 per «promuovere l’arte vivente, l’anti-arte, la realtà non-artistica» e per estirpare dal mondo «l’arte morta, l’imitazione, l’arte artificiale». L’iconoclastia e l’anarchismo Dada avevano indicato la via e Ben, in tal senso, aveva le idee già molto chiare. Del 1962, a Londra, è l’esposizione di sé stesso come scultura vivente per due settimane nella vetrina della Gallery One. Ma se «Tutto è arte», secondo il verbo Fluxus, a un certo punto anche «L’arte è superflua»: lo scrive sullo striscione che, steso sulla facciata del Fridericianum, costituiva la sua opera concepita per documenta di Kassel nel 1972.
Ben Vautier, al secolo Benjamin Vautier, nato a Napoli nel 1935 da padre antiquario e madre pianista (i due si separarono e lui venne affidato alla madre, che lo portò con sé in continui spostamenti in Europa) prese le distanze anche da quel po’ di idealismo che Fluxus portava con sé: «Fluxus tenta di dire “merda” all’arte, ma non ci riesce affatto». E va oltre: «Non stiamo più cercando la forma estetica dell’arte, ma stiamo mettendo in discussione l’arte, disse nel 1973. Ecco perché mi interessano questi atteggiamenti che si definiscono anti-arte, non-arte, la vita è arte, l’arte anonima, anche se credo che questi siano atteggiamenti ipocriti e, nel complesso, impossibili». Da Duchamp aveva imparato che firmando un qualsiasi oggetto lo si eleggeva a opera d’arte; la firma è scrittura, la scrittura è arte e insieme «non-arte». Per fare un quadro è sufficiente prendere una tela e scriverci sopra «tela», con quella grafia provocatoriamente infantile e altrettanto provocatoriamente chiara.
La scrittura fa precocemente irruzione nella sua opera quando, alla fine degli anni Cinquanta, non sa decidere che cosa sia meglio, se dipingere quadri astratti, guardando a Poliakoff o a Soulages, o scrivere «poesie lunghissime» alla sua prima moglie, Jacqueline. Nel mondo dell’arte, all’epoca, il termine «tautologia» non era così diffuso (agli studenti si insegna ancora oggi che è una faccenda di pertinenza concettuale, di Joseph Kosuth e seguaci), ma l’irriverente Vautier cominciò a farne, forse inconsciamente, ampio uso. Invece di dipingere un rosso, bastava scrivere «Rosso».
«La scrittura a mano è l’ego che parla, sono io, Ben, che traccio quelle scritture», spiegò nel 1973 nel corso di un’intervista con un suo grande ammiratore, Achille Bonito Oliva. «Se l’arte è un’attività umana, continuò, il motore delle attività necessarie al rinnovamento è l’aggressività dell’ego. Non credo infatti che l’arte si basi sull’altruismo, l’arte è essenzialmente un gesto egoista». Erano affermazioni come queste, questa contraddizione esibita (un artista che accusa l’arte di egoismo si tramuta egli stesso in egolatra attraverso l’autografia della scrittura) che in quei tempi di contestazione destabilizzavano qualsiasi slogan o dogma protestatario. Le sue «écritures», o dipinti scritti, spesso lettere bianche scritte a mano su sfondo nero, erano aforismi tipo «Dimentica che mi dimentichi», cui deve molto lo stesso ABO, con il suo «dimenticare a memoria» e i suoi «aborismi», ma sono in molti gli eredi diretti o indiretti di Ben, tra i quali Jenny Holzer, con i «truismi», le verità ovvie solennizzate come epigrafi. Daniel Templon a Parigi, René Block a Berlino, e, in Italia, Il Punto di Torino e Lia Rumma di Napoli furono tra le prime gallerie promuoverne l’opera. Tra le sue più recenti retrospettive, si segnala quella del 2016 al Musée Maillol di Parigi. Il suo record d’asta (106.600 euro da Piasa a Parigi il 22 ottobre 2019) è stato ottenuto da un suo omaggio all’artista cui riconosceva la massima sul suo lavoro. Si tratta di «Boîte de Duchamp», una cassa contenente oggetti di recupero, collage, tele con scritture e altri reperti (compreso un frammento di un sanitario) messi insieme dal 1979 al 1992.
Nel suo nomadismo, Ben Vautier approdò anche a Torino, negli anni Settanta uno dei punti di riferimento delle neoavanguardie. Tra i suoi sodali, l’artista Ugo Nespolo.
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