Franco Fanelli
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Nel numero dello scorso giugno del Giornale dell’Arte, nel mese in cui si sono svolte le elezioni per il Parlamento Europeo, abbiano chiesto ai nostri lettori di votare i loro candidati. I «sondaggi» (lo «share» di cui godono in questo momento alcuni artisti) indicavano in Marina Abramović e Anselm Kiefer i favoriti ma, com’è accaduto recentemente in Francia, una sorta di «Nuovo Fronte Popolare dell’arte», messe da parte le divisioni e le predilezioni personali, ha letteralmente azzerato le aspirazioni della «nonna della performance» (come lei stessa ama definirsi) e del suo rivale (un artista che ha sondato le profondità più oscure della storia della Germania, cuore dell’Europa stessa) e ha mandato a Strasburgo l’artista apparentemente meno politico del XX secolo, un anarcoide che ha ribaltato ogni canone estetico e che a un certo punto della sua vita, emigrato negli Stati Uniti, preferì dedicarsi totalmente agli scacchi.
Marcel Duchamp, il «non artista» o l’artista per antonomasia, vista la sua assoluta libertà di pensiero, la cui stessa data di morte, il 1968, coincide con l’inizio della liberazione totale da ogni convenzione borghese e della fantasia al potere, secondo un terzo dei votanti sarebbe l’uomo giusto per rappresentare l’arte al Parlamento europeo. Kiefer, comunque, tiene botta, e con Picasso (entrambi al 15%) non concede a Duchamp la maggioranza assoluta. La sorpresa è Kandinskij, che ha ottenuto il loro stesso risultato. Come interpretare quest’ultimo risultato? A ispirare i votanti è stata la vicenda di un artista russo, dapprima «organico» alla Rivoluzione, ma poi costretto all’esilio dalla dittatura? È un voto riferito al nostro presente, ora che le aspirazioni imperialistiche della Russia, guidata dalla vocazione dittatoriale del suo presidente, si sono risvegliate? Oppure, più banalmente, in tempi in cui l’Astrattismo gode di rinnovati favori, è tornato alla ribalta uno degli «inventori» di quella forma di espressione?
Il resto delle preferenze se lo sono divisi in quattro. Francis Bacon è l’interprete pittorico delle lacerazioni dell’uomo moderno, mentre Salvador Dalí porta i suoi numerosi ammiratori in un mondo parallelo e forse più vero, nella sua assurdità, di quello che si cela dietro le apparenze. Tra le poche affinità reciproche, l’interesse giovanile di Bacon per il Surrealismo, come del resto molti colleghi della sua generazione. Quanto alla politica, il primo potrebbe essere un testimonial del movimento Lgbtq+; il secondo, dopo tentazioni anarchiche e poi simpatie franchiste, si definì «anarchico-monarchico», come a dire tutto e il contrario di tutto. Quanto agli altri due, Beuys e Pistoletto, i loro voti possono avere premiato le reciproche affinità: ad esempio, la convinzione che l’arte sia di tutti e per tutti, ma anche l’ascetismo ambientalista del primo e l’utopia di una rinascita dell’uomo in un Terzo, e soprattutto sostenibile, Paradiso del secondo. Posizioni, queste ultime, che secondo gli esperti avrebbero potuto garantire ai due, uno sciamano e un profeta, un maggior numero di preferenze.
E invece ecco Duchamp, uno, forse il maggiore, tra i padri fondatori dell’arte contemporanea. E se lascia francamente perplessi l’assenza femminile tra gli eletti, occorrerà pure riflettere se e quanto sia vero che Duchamp e la politica siano così lontani. Qualcuno, Pablo Echaurren, figlio d’arte e artista politicamente impegnato, l’ha già fatto, spiegando perché, al contrario, l’uomo che ha reinventato l’arte sia anche l’artista «più “politico” e “sociale” del secolo scorso» in un lucido e appassionato articolo pubblicato nel 2018 da «Huffpost». Se noi, un po’ frettolosamente, possiamo sempre riconoscere in lui un geniale precursore della raccolta differenziata degli scarti, con maggiore finezza Echaurren ne ha proiettato la figura nell’attualità con argomenti (il basso profilo, il rifiuto del feticismo e dello stesso concetto di «brand» legati all’opera d’arte) con parole che possono spiegare il successo conseguito nelle nostre piccole elezioni europee dell’arte: «Duchamp è stato l’emblema stesso del rifiuto del lavoro e del denaro come misura di tutte le cose. Ha praticato una filosofia minimale secondo cui tutto ciò che possedeva doveva/poteva essere contenuto in una valigetta. L’intera sua opera la fece entrare, miniaturizzandola, in una valigia al fine di creare un museo trasportabile. Trasportabile in viaggio o durante una fuga, la propria fuga dalla bagarre artistica, dai conflitti, dalle guerre, dai genocidi».
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