Adriano Boschetti
Leggi i suoi articoliDal 1974-75 quando il Ministero per i Beni culturali è stato istituito da una costola del Ministero della Pubblica istruzione (la Direzione generale Antichità e Belle arti) l’organizzazione del nuovo dicastero del Collegio Romano è rimasta pressoché stabile per oltre un ventennio. Subito, dalla fine degli anni Settanta, sono state reclutate le forze aggiuntive necessarie con pubblici concorsi.
All'inizio degli anni Ottanta altre massicce immissioni di personale (forse a volte meno selettive e particolarmente ingenti) sono avvenute con la «285», la legge per l’occupazione giovanile. Per un primo periodo dunque le cose sono andate più o meno regolarmente, anche perché era una nuova organizzazione con un bilancio e stipendi da «fanalino di coda» della Pubblica amministrazione, ma presto, con l’arrivo delle prime cospicue risorse, si è attuato un allineamento con le dinamiche già in atto in altri settori e si è manifestata una grave anomalia.
Una vera e propria patologia. Si è accorto che questo nuovo Dicastero stava assumendo particolare rilievo e che meritava quindi particolari attenzioni l’unico presidente del Consiglio che ne abbia temporaneamente assunto la guida ad interim. Quale il primo duplice sintomo di questo stato di sofferenza e del connesso straordinario soccorso?
Un numero crescente di rappresentanti dell’Amministrazione ha cominciato a denigrarne pubblicamente l’operato. Roba da alto tradimento delle istituzioni, rimasto impunito. E nelle espressioni allora più in auge si è cominciato a evocare il principio di un possibile bottino che era lì ad attendere solo una qualche azione di pirateria: «giacimenti culturali» o «petrolio italiano».
Proprio mentre erano sotto gli occhi di tutti risultati straordinari, quali quelli della legge Biasini, qualcuno ha deciso contro ogni evidenza che gli uffici del Ministero non erano in grado di fare da soli, di adempiere ai loro compiti. Si è anche deciso che occorreva rendere molto più costosi i lavori di restauro e gli allestimenti affidandoli in concessione ai privati. Con la scusa che i lavori avrebbero sollevato gli uffici pubblici da ogni onere, si è proposto di riconoscere che quei lavori venissero a costare mediamente 5 volte di più.
La giustificazione per questo vero e proprio sproposito era che i compensi comprendevano progettazione, gestione dei rapporti con il contraente, direzione dei lavori, collaudo. Ma invece, poi, nel corso dei lavori venivano avanzate riserve per presunte inadempienze di chi era stato dichiarato inabile e sollevato da tutto, di chi quindi avrebbe dovuto solo attendere di ricevere il risultato del lavoro finito «chiavi in mano». Tali riserve in seguito si trasformavano in contenzioso e in arbitrati dai quali spessissimo il Ministero usciva soccombente e tenuto a pagare cifre enormi «in conto sospeso»: per qualche cavillo (malgrado la promessa iniziale fosse stata appunto di una consegna «chiavi in mano», tutto compreso) il Ministero, cioè il contribuente, si trovava a dover corrispondere risarcimenti di presunti ma inesistenti danni recati alle imprese selezionate con criteri opinabili.
Questo avveniva in misura crescente che con lo stratagemma tecnico del «prezzo chiuso», lasciando passare più tempo possibile prima di adire in giudizio: si arrivava così sino a raddoppiare quei prezzi iniziali già molto esosi: il raddoppio di cifre 5 volte al di sopra dei prezzi correnti le portava a quota 10, uno zero in più nei conti da pagare. Se intervenivano transazioni si lasciava qualcosa «inavvertitamente» fuori dall’accordo e dopo anni ma in tempo utile, subito prima dello spirare dei termini, ecco un altro ricorso. Si è giunti insomma in certi casi a pagare sino a 15 volte quello che sarebbe costato far fare i lavori tramite gli uffici del Ministero e quel salasso non è mai finito, è tuttora in corso.
Dopo la sequenza dei ministri socialdemocradici, il segnale culminante di questo fenomeno sono state le bombe contro il patrimonio culturale del 1993 a Roma, Firenze, Milano: 10 morti e gravi danni al patrimonio. Niente Isis: il diritto d’autore sull’invenzione di questa barbarie è italiano, la mafia di Alcamo. Per individuare eventuali mandanti e collusi il Parlamento non ha però mai concesso le autorizzazioni a procedere: a difesa dei misteri della socialdemocrazia italiana e forse anche a difesa di chi ne aveva chiuso la serie.
Ci si potrà chiedere come sia stato possibile attuare un piano del genere senza ricorrere all’ipnosi di massa, che in effetti in varie forme non troppo velate era già in atto con il monopolio o l’oligopolio dell’informazione: ma meccanismi ulteriori non potevano mancare e non sono mancati. Erano tre: complessità di finanziamenti apparentemente vantaggiosi (con clausole nascoste), apparente assenza di incombenze, destabilizzazione dell’interlocutore con proliferazione normativa e instabilità delle cariche.
Da una parte assieme ai prezzi molto superiori al consueto (e non si sapeva che con il passare del tempo sarebbero aumentati di molte volte ancora) si offriva anche il reperimento dei fondi necessari e non vi è «padrone di casa» che possa resistere all’offerta di un ingente finanziamento apparentemente in suo favore (quando non si sapeva ancora che quel «regalo» si sarebbe presto trasformato in un debito di importo pari o maggiore, per via di lodi arbitrali). Insomma titoli tossici ante litteram. Questa tecnica distoglie l’attenzione dalla verifica dei costi unitari per l’attrattiva degli ingentissimi importi complessivi apparentemente «offerti». D’altra parte si faceva leva sulla pigrizia: il contratto di concessione apparentemente non comportava incombenze per la proprietà pubblica dei beni.
Alla fine del millennio la legge Bassanini ha privatizzato la dirigenza pubblica cancellando le resistenze residue: i dirigenti vengono da allora in avanti nominati dal Governo in carica tramite contratti di diritto privato di durata da 3 a 5 anni, rinnovabili una sola volta. Come dire che chi non si allinea è fuori gioco. Si dirà per consolarsi che per qualche anno almeno qualcuno potrebbe però resistere in difesa degli interessi comuni e in pace con la propria coscienza. Ma c'è uno strumento anche per evitare questo, che consiste appunto nelle riforme: i contratti possono durare meno del minimo triennale fissato dalla legge che li ha introdotti, perché cessano automaticamente in caso di riforma del Ministero.
D’altronde è fin troppo logico: se l’incarico contrattualizzato non esiste più perché tutto è stato trasformato (o è cambiato comunque almeno il nome e una delle funzioni dell’ufficio) il patto è risolto, la prestazione deve cessare, il dirigente salta e il Governo procede direttamente o indirettamente (per gli incarichi di livello non generale) a nuove nomine. Ecco una possibile spiegazione per l’inizio della stagione delle continue riforme. Sarà magari solo una tra le tante.
Mentre la cittadinanza si manifestava con gli esponenti migliori della democrazia sana, mentre Antonio Cederna studiava una legge per la difesa dei centri storici (mai portata in aula e affossata dal suo stesso partito, una «medaglia» che lo accosta a Rava e Rosadi nel 1906 e a Sullo nel 1963) il sistema esterno di controllo delle decisioni pubbliche si rafforzava e dava inizio alle danze, o meglio alla giostra. Incremento del contenzioso, soccombenze, conti tassativamente in rosso delle società controllate dalla Pubblica amministrazione. Da fuori sembra incompetenza e invece è arte del malaffare. Nei Paesi semplici si porta la guerra per predare risorse, in quelli complessi ed evoluti si porta debito. È la legge della finanza planetaria, delle multinazionali, delle regìe indirette.
C’è da dire che malgrado questo cappio al collo all’inizio del nuovo millennio l’Europa riesce comunque, di rincorsa e di slancio, quasi d’inerzia provvidenziale, a scrivere e a firmare proprio a Roma la sua Costituzione (non però a mantenerla in vita), a introdurre la moneta unica, ad aprire le frontiere, a creare un’immensa estensione territoriale dei confini in modo pacifico per la prima volta nella storia, a raggiungere il primo prodotto interno lordo del mondo, superando quello degli Usa. E tutto questo dopo aver prodotto in dono all’intero pianeta la prima generazione vissuta in pace nella storia. Ma la festa dura poco perché le reti sono già in acqua e dal 2008 parte la mattanza.
Dopo uno sguardo superficiale e generale al periodo, si può meglio tornare a cercare di valutare non tanto l’ultima riforma in atto, quanto la sequenza di riforme che incessantemente si susseguono dal 1998. Approssimativamente una ogni due anni in media. Ma il record dei record, difficilmente superabile, lo ha stabilito la passata legislatura, il ministro ha riformato se stesso e modificato il proprio operato a distanza di meno di due anni, annunciando la sua irrequietezza a meno di un anno dalla sua riforma. pur di far girare la giostra. Meraviglie dell’autocritica.
Ma c’è almeno un’altra particolarità che si deve sottolineare per meglio comprendere le dinamiche in atto nel terzo millennio: a fronte di tante continue rotazioni di chi dovrebbe essere stabile e indipendente, cioé i dirigenti vincitori di concorso pubblico, sta invece nei Ministeri uno «zoccolo duro» di esterni (non in ruolo) che viene traghettato da un Governo all’altro, da una legislatura all’altra, da un Gabinetto all’altro. Anche qui ci sono casi interessanti. Nei centri di maggiore rilievo invece la durata media di permanenza di un dirigente di ruolo è scesa a 8 mesi.
Questa situazione che cosa potrà partorire? A quando la trasformazione dello Stato in agenzia privata? L’eccesso stritola il cranio delle sue origini, come in «Blade Runner». Per dirla con le parole di Curzio Malaparte riferite alla ricerca di un tappezziere per la sua villa a Capri, resta solo da chiedersi: chi ci rappezza?