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«L’esecuzione di Lady Jane Grey» di Paul Delaroche (1833) conservato alla National Gallery di Londra

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«L’esecuzione di Lady Jane Grey» di Paul Delaroche (1833) conservato alla National Gallery di Londra

Mastro Titta, il boia di Roma, e le sue memorie

Come partire da 516 decapitazioni per un tour immaginario fra dipinti storici strappacuore

Arabella Cifani

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Avevo sempre desiderato leggerlo e sapevo che era stato più volte pubblicato. Ma non lo trovavo, almeno non lo trovavo facilmente e quindi lo avevo abbandonato nell’ampio limbo dei desideri insoddisfatti. Poi, un giorno, una libreria vicino a casa mia ha disposto all’esterno del negozio una serie di banchetti con libri a prezzi stracciati e ho visto comparire Mastro Titta. Memorie di un boia: proprio lui, il libro che cercavo da tempo. Forse perché torinese e abituata fin dalla prima infanzia ad essere deportata al Museo Egizio e a confrontarmi con mummie, sarcofagi e morti, amo da sempre i libri che hanno per argomento misteri, fantasmi ed orrori vari e ne possiedo una più che cospicua collezione. Mastro Titta mi mancava.

Mastro Titta era il boia del papa. Esercitò la sua onorata professione per sessantotto anni, dal 1796 al 1864. Quando si ritirò in pensione, invece di portare a spasso il cane e giocare a carte si diede alla letteratura e scrisse un libro in cui racconta per filo e per segno le sue 516 esecuzioni assortite. Mastro Titta (che si chiamava Giovanni Battista Bugatti) aveva una felice vena scrittoria ed era un gran pettegolo, ragion per cui di ogni morto ammazzato da lui narra vita e reati per filo e per segno. La lettura del libro è spassosa. Il sangue gronda a litri. Il Titta, con un cappuccio nero e una veste rossa (ancora conservata) si meravigliava ogni volta candidamente che qualcuno osasse dimenarsi e protestare prima di essere soppresso e poi squartato invece di sorridere e salutare gli amici convenuti. Le storie dei rei sono spesso a sfondo sessuale e molti uccidevano per gelosia. Titta per raccontarne le vicende usa l’armamentario letterario del romanzo d’appendice di bassa lega del suo tempo e indugia compiaciuto su «formosissime» compagne di briganti o spose fedifraghe «dagli occhi incandescenti e dalle forme piene e rotondeggianti», donne dai «sensi eccitati» che trascinano al delitto uomini onesti e timorati (e molto tonti) che solitamente non si accorgevano mai che «l’amico senese» di turno stava trescando con la moglie.

La sequenza di misfatti e relativi castighi descritta dal boia romano trascina però la fantasia in un tour immaginario fra le decine di quadri che durante il XIX secolo furono dipinti in tutta Europa aventi come soggetto condanne e esecuzioni. La mitologia romantica, legata alle scene più oscure della storia europea, godette infatti in tutta Europa di molta fortuna, anche se è lecito domandarsi (ma in molti casi invece lo sappiamo perfettamente) chi mai se li commissionasse e perché se li mettesse in casa: d’altra parte era il tempo del melodramma e dei romanzi gotici e quello era il gusto. La «Maria Stuarda che sale al patibolo» del 1827 di Hayez è un preclaro esempio di questa temperie culturale e non ci meraviglieremmo per nulla se nella scena, dove tutto avviene con elegante e regale compostezza, i presenti si mettessero a cantare con voci soprane e baritonali e lo sfondo di un coro. Hayez fu altamente specializzato in scene con condannati di vario genere spesso tratte anche dai romanzi storici al tempo in voga: la «Valenza Gradenigo davanti agli inquisitori» la dipinse più volte per il piacere di spettatori sadici deliziati dallo scomposto torcersi della giovane monaca svenuta davanti al tribunale della Serenissima. In questo caso, a proposito di committenza, sappiamo che una delle versioni della «Valenza Gradenigo», quella del 1835 fu ordinata al pittore dal poeta e traduttore conte Andrea Maffei che in seguito la  donò alla moglie Clara, animatrice del più celebre salotto dell’Ottocento milanese dove il quadro fu esposto all’ammirazione degli ospiti convenuti per il the.

«Oliver Cromwell presso la bara di Carlo I» di Paul Delaroche, conservato alla National Gallery di Londra

Anche i francesi si dedicarono accanitamente ai tenebrosi temi delle condanne e delle esecuzioni e, fra i tanti, la «Morte di Maria Stuarda» di Abel de Pujol del Museo di Valenciennes appare notevole, con la regina adagiata con la testa sul ceppo, pallidissima, attorniata dalle sue dame disperate, che si è aperta il vestito sul collo e sul bel décolleté per permettere al carnefice di svolgere meglio il suo compito (e intanto gli spettatori si sbirciano il seno turgido della regina). Ma è Paul Delaroche il genio francese di questa tipologia di quadri che non manco mai di ammirare a Londra e Parigi. «L’esecuzione di Lady Jane Grey nella Torre di Londra nell’anno 1554», opera del 1833 (conservato alla National Gallery di Londra) è un capolavoro del genere. La tela narra l’epilogo della breve storia di Lady Jane Grey che regnò solo 9 giorni e fu fatta uccidere a 17 anni da Enrico VIII. La lacrimevole vicenda ha come fulcro la giovane e bella Jane biancovestita e ormai bendata (intuiamo la bellezza dei suoi tratti anche sotto l’ampia fascia che le copre gli occhi e che aggiunge anzi una nota di mistero) e che a tastoni cerca il ceppo su cui dovrà lasciare la testa. Il quadro è un vero «coup de théâtre», elaborato con una pittura bella e luminosa come una porcellana, ma guardando il quale tutti gli spettatori sono autorizzati a inorridire: e pare quasi di sentire i mormorii del pubblico del dress circle emozionato mentre qualche dama deve ricorrere ai sali. Certo è che è difficile staccare lo sguardo dall’opera quando la si ha davanti: un effetto simile a quello di chi si ferma a guardare subito dopo un incidente stradale, magari cercando uno schizzo di sangue.

Delaroche, che anticipa nei suoi quadri effetti che saranno propri del teatro parigino del Grand Guignol, si supera poi nella tela con «Oliver Cromwell presso la bara di Carlo I» (alla National Gallery Londra). In questo dipinto, che evidenzia il suo talento melodrammatico, è rappresentato l’episodio in cui Cromwell si sarebbe fermato a contemplare il cadavere del re Carlo che aveva appena fatto decapitare. Con arte non comune Delaroche costruisce una scenografia sghemba in cui la cassa da morto di Carlo I è in prospettiva scorciatissima. Ma che batticuore osservare l’antipatico Oliver che guarda compiaciuto e soddisfatto il povero Carlo decapitato (e si vede assai bene la linea rossastra del taglio del collo). Pare quasi di sentire l’odore del sangue e il ronzio di qualche moscone che gira sul cadavere: un quadro che suscita sentimenti di attraente repulsione.

Delacroix, che non amava per nulla il collega Delaroche, dipinse anche lui un quadro con lo stesso soggetto proprio per contestare il collega: questa seconda versione è effettivamente molto efficace e macabra al punto giusto, e decisamente più moderna: la cassa da morto è proprio vera e anche il cadavere che Delacroix sarà andato, secondo il suo stile, a ripescare all’obitorio.  Ai francesi venivano evidentemente bene gli episodi più foschi della storia inglese, come testimonia la «Anna Bolena nella torre di Londra» di Édouard Cibot (conservato al Musée Rolin di Autun) dove lacrime e eleganza formale si sprecano.
Gli inglesi, pur espertissimi del genere per grande e diretta tradizione, non hanno prodotto in realtà quadri molto significativi sul tema. Si distingue però una testa di Maria Stuarda, appena rotolata, del preraffaellita Ford Madox Brown (all’Ashmolean Museum di Oxford), che una vena tra il macabro e le rappresentazioni di disgrazie varie la coltivò assai bene per tutta la vita.

Per chiudere questo breve e forzatamente incompleto tour di esecuzioni e condanne, ricordiamo la storia, che trovò eco anche ne «I Lusiadi», della povera Ines de Castro, moglie di Pietro I del Portogallo, fatta assassinare con i figli dal suocero. In questo caso l’autore della migliore versione illustrata dell’orrida esecuzione della regina e dei suoi due figlioletti è di un celebre pittore russo (vissuto sempre in Italia): Karl Pavlovič Brjullov. Vi si vede Ines con le vesti scomposte, e i due piccoli bambini che cercano inutilmente riparo presso la madre che chiede pietà al suocero che invece la fa pugnalare con grande compiacimento da tre brutti ceffi. Questo quadro fu esposto a Brera nel 1832 ed è curioso notare come le migliori tele con esecuzioni si collochino proprio tra gli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento.

«Il sacrificio di Ines Di Castro» di Karl Pavlovich Bryullov esposto a Brera nel 1832

La storia di Maria Stuarda divenne nel 1835 una delle più belle opere liriche di Gaetano Donizetti e anche la Ines di Castro fu trasformata in un’opera, meno bella, sempre nel 1835, da Giuseppe Persiani. La sorte di queste eroine sfortunate era quindi quella di morire cantando.

Arabella Cifani, 01 agosto 2023 | © Riproduzione riservata

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