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Chiara Coronelli
Leggi i suoi articoliMilano. «La fotografia di Michael Wolf è quella di un outsider». Così l’artista tedesco introduce il proprio lavoro, fornendoci già la prospettiva di uno sguardo che si aggira ovunque da straniero, con la curiosità e la capacità di vedere di un neofita.
Al centro delle sue indagini c’è la vita delle megalopoli, cercata nel flusso universale che accomuna tra loro le città contemporanee, luoghi dove trova sbocco il suo costante interesse per l’uomo. A lui è dedicata la personale che Micamera ha inaugurato pochi giorni fa nel proprio spazio, in concomitanza con il workshop «Peperoni Books Pop-Up Store», organizzato dalla stessa associazione culturale milanese.
Nato a Monaco nel 1954, e cresciuto tra Canada Stati Uniti ed Europa, fino al 1973 studia alla Berkeley University della California, per poi spostarsi alla Folkwang School di Essen, dove segue i corsi di Otto Steinert. Nel 1994 si trasferisce a Hong Kong , dove vive tuttora, prima con un contratto per la rivista «Stern», poi concentrandosi esclusivamente su ricerche autoriali. Il suo lavoro si sviluppa per grandi capitoli, dentro i quali lui si muove come un collezionista e un voyeur. «Sono molto curioso della gente, e la fotografia mi permette di soddisfare questa urgenza». Il suo è un continuo sbirciare per «entrare nella vita degli altri, bussare alla loro porta». Nascono da questo momento le molte serie per cui è noto: dal continuum architettonico di «Transparent City» alla folla schiacciata contro i finestrini del metro in «Tokyo Compression», da «A Series of Unfortunate Events», dove per la prima volta utilizza Google Street View, a «Real Fake Art», fino agli indecifrabili e sgranati «Portraits», e alla bidimensionalità degli edifici che diventano pure quinte geometriche in «Architecture of Density».
Queste e altre sono diventati libri, diciassette dei quali pubblicati con Peperoni Books, in stretta collaborazione con Hannes Wanderer, fondatore e direttore della casa editrice berlinese, di cui Micamera presenta un’ampia scelta di titoli. Questa collaborazione è stata occasione per spiegare nel pop-up store la relazione tra progetto fotografico e la sua traduzione editoriale, «in un workshop pensato per chi vuole conoscere a fondo il processo che porta alla nascita di un libro».
Le immagini esposte fino al 22 luglio, oltre alle celebri facciate di edifici resi «come pattern archietettonici», sono una selezione da «Hong Kong Back Alley», un viaggio tra i vicoli nascosti dietro l’ufficialità pubblica della metropoli, tra il susseguirsi di cortili soffocanti, il correre di tubature e impianti elettrici, in un tessuto di oggetti accatastati, sedie, guanti di gomma, scope, appendini, tutto ricomposto in un universo segreto dove il passaggio dell’uomo si afferma in ogni dettaglio. È questo continuo richiamo della presenza umana che Wolf va a cercare, anche quando riprende i grattacieli, quando scova i loro abitanti oltre le finestre, quando va a ingrandire per ottenere il fotogramma di una storia, quando scorre e preleva nuove inquadrature da Street View. Anche nell’apparente astrattismo bidimensionale dove schiaccia la città, Wolf non fa che procedere alla rilevazione delle esistenze, e dello stare al mondo degli individui come massa di solitudini.



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