Arabella Cifani
Leggi i suoi articoliChi ha detto che un autore non si giudica mai dalla copertina o dal titolo? Al contrario. Da lì si comincia e, talvolta, si finisce anche. L’abito fa il monaco: sempre. Ed è al monaco, anzi, che spetta dare giustezza e legittimazione all’abito. Nell’attimo di inaugurare una rubrica basata, come vorremmo sempre, sullo scambio fitto fitto e che, perciò, avremmo desiderato chiamare «il dialogo in corpo», mettiamo le mani avanti. Qui non si tratterà di scoperte di opere e documenti a sostegno; né di libri o mostre. Parleremo di cover (e titoli). Libri, dischi, saggi, manuali, cataloghi, album di figurine, pubblicità e packaging vari. Tutti da avvicinare esercitando la pratica di scartocciare un regalo, trarlo dalla confezione che è, per chi lo abbia dimenticato, arte difficile che s’impara e che, nel transito al digitale, con la progressiva e, pare, irrimediabile scomparsa dei formati, abbiamo tutti disimparato.
Questa non è una copertina
La prima edizione del Gattopardo, Steiner e il cassetto dei ricordi
Il passato è un buco nero. Il passato è ombra sgranata. I ricordi sono ragnatele. Questo pare esser il senso della prima copertina del Gattopardo, uscito in 3mila copie («bruciate» in poche settimane) nel 1958, quando Giuseppe Tomasi di Lampedusa era nel sepolcro da un anno senza la consolazione di averlo visto stampato. Albe Steiner, illustre grafico e autore della copertina, reinterpretò da par suo il libro e divisò anzi il futuro film di Luchino Visconti del 1963 di cui l’immagine pare una anticipazione e una visione premonitrice precisa.
Steiner riuscì a fornire in quell’immagine volutamente sgranata e pixelata il senso di un libro che segnò la letteratura europea del Novecento (sappiamo che leggeva sempre con attenzione i libri di cui progettava le copertine) e aveva compreso perfettamente il mélange di malinconia, solitudine e considerazioni sulla caducità delle cose che è alla base del Gattopardo.
Nella copertina vediamo l’altissimo principe di Lampedusa chesi è appena alzato dopo la preghiera e cammina da solo appoggiandosi a un bastone da passeggio, riverito sulla destra da tre persone della sua casa chesi inchinano al suo passaggio. Nello sfondo, ancor più indefinito, mobili rococò. Il colore della base è un giallo ambrato, molto luminoso, su cui le figure sono delineate con un color terra di Siena, altrettanto caldo. Autore e titolo in caratteri neri, ma per il titolo un elegante e un po’ ottocentesco corsivo.
Ma da dove ha tratto Steiner questa copertina? A quale cassetto di ricordi attinse? Steiner, uno dei fondatori della grafica editoriale contemporanea, uomo dichiaratamente di sinistra, molto lontano dal pensiero e dalla sensibilità di Tomasi di Lampedusa, non farà mai più qualcosa di simile per altre copertine di libri da lui curate, anzi. Nelle sue copertine, spesso influenzate dal Costruttivismo russo e dal Bauhaus, solitamente cercava chiarezza ed efficacia anche tramite l’uso di caratteri grafici e dimensioni dei caratteri stessi in grado di veicolare il messaggio del libro e di definirlo nel modo più efficace possibile, senza fronzoli e soverchi abbellimenti.
Tutto ciò per il Gattopardo salta. Si direbbe anzi che Steiner si rifaccia alla pittura di interni borghesi dell’Ottocento, con richiami che corrono da Giuseppe Molteni agli Scapigliati e al romanticismo di Gerolamo Induno. Ma in questo caso i riferimenti andrebbero cercati anche nei film, in particolare in quelli francesi in costume, come la Certosa di Parma di Christian-Jaque, un regista che gli era affine, uscito dall’École nationale supérieure des arts décoratifs di Parigi. Ma fra i suoi ricordi visivi vi doveva essere anche un certo cinema calligrafista italiano come quello del Mario Soldati di Piccolo Mondo Antico. Insomma, uno Steiner molto alternativo a quello che è di lui conosciuto e fissato.
Parafrasando Virginia Woolf potremmo pertanto dire che questa non è una copertina ma una soglia che si pone lungo il confine fra il lettore e il libro: un cancello, una porta che serve per passare oltre, in quella dimensione del ricordo che trova la sua amarissima apoteosi nella parte finale del libro quando Concetta rivede una scena cruciale della sua vita «lontanissima ma chiara, come ciò che si scorge attraverso un cannocchiale rovesciato» e anche l’immagine pensata da Steiner appare come in un cannocchiale rovesciato, a guardarla bene.
Tutto sommato quella della prima edizione ci appare come una copertina che è riassunto di una cultura sofisticata come quella di Steiner che fu anche pittore e che per nascita e formazione aveva avuto tutto il tempo di assorbire l’onda lunga della pittura ottocentesca europea.
Oggi le copertine dei libri sono spesso più importanti e significative del contenuto e su una buona copertina si può giocare anche una scommessa editoriale: lo sanno bene gli editori quanto siano importanti forma, logo, packaging. La copertina è l’immagine che fa sì che lo sguardo del potenziale lettore sia attratto da quel libro che sembra differente da tutti gli altri, ma nel 1958, al tempo della prima edizione del Gattopardo, tutto questo processo era in movimento ma non ancora chiaramente percepibile.
In seguito al libro furono messe altre copertine, alcune abbastanza valide, altre più scontate e con prevalenza di fotogrammi dal film di Visconti. La prima brilla tuttavia ancora di luce propria, e qualcuno ci dovrà spiegare come si siano prodigiosamente potuti accostare proprio questa copertina e l’incipit visivo del film con il principe e la sua famiglia nella celebre scena del Rosario fra le tende di pizzo gonfiate dal vento.
Ottocento con la retina
Il cimitero dell’Ottocento della copertina del Gattopardo
Esistono copertine scelte dall’autore che immettono al clima del libro come un’ouverture. Esistono copertine scelte dall’editore all’insaputa dell’autore, che suggeriscono letture non autorizzate né necessariamente condivisibili del testo. E nascono copertine che sono, di per sé, opere da godere. Vale per i libri e, specie a partire dagli anni Cinquanta, per i dischi. Una copertina azzeccata è il benvenuto al lettore. Un segnale d’intesa. Se la sbagli non è grave. Ma non hai reso un buon servizio all’autore (che c’entra Paolo Conte con la copertina di «Paris Milonga»?).
Chi lo ha visto scompaginarsi in cucina associa il Talismano della felicità al «Mangiafagioli» della Galleria Colonna (curioso che, nella fortuna di questo dipinto di Annibale Carracci manchi sempre il riferimento ad Ada Boni). Ma nell’inverno del 1958 il Gattopardo come lo vesti? Che metti addosso al nostro ultimo libro fatto di narrazione, l’ultimo al quadrato? Il solo che rinnovi chi scrive e chi legge il patto stressato dalla crisi dei linguaggi tradizionali? A chi siano familiari le messe in casa, i balli, i pitali e le specchiere, le strategie e le schermaglie sa che su Donnafugata convergono, aggiornate e potenziate, le tecniche ottocentesche di coinvolgimento del lettore. Ricucinate in modo per cui chi affronti Verga di Malavoglia o non abbia la pazienza di ripercorrere la saga degli Uzeda di De Roberto le ritrova qui aggiornate e sottoposte a restyling.
Tomasi di Lampedusa non è solo l’autore di uno dei rari successi mainstream dell’Italia moderna. Ma è la riprova che non siamo mai usciti dall’Ottocento. Noi siamo l‘Ottocento. Siamo Verdi e Puccini, Albano e il Volo. Non siamo né saremo mai Ligeti o la carriera di un libertino. Ci vogliono musiche e trame orecchiabili, dialoghi che si chiudono a lucchetto. Altrimenti uno si scoccia e non paga il biglietto. Il punto non è che Luciano Berio sia musica alta mentre Morricone no. Sono modi diversi di pensare la musica e il rapporto con il fruitore. Solo che Morricone si può fischiettare, Berio no. Chiunque capisce da solo le ninfee di Monet o è capace di seguire i dialoghi del Gattopardo. Se, da poetico, il linguaggio sterza verso forme decisamente intellettuali (parola di Elio Vittorini), è la fine di ogni fiducia.
Il Gattopardo ha educato il lettore che erediterà Camilleri; quello stesso che, nella riduzione aforistica della lettura provocata dai social, riesce a intercettare Maurizio de Giovanni padrone di trame simili a sceneggiature. Oggi Alessandro Gassmann è il miglior surrogato dei Bastardi di Pizzofalcone come, sessant’anni fa, Burt Lancaster è il perfetto principe di Salina nel film di Visconti. Da cinema a serie tv, cambiano solo luoghi di fruizione e tempi. Ma lo spettatore rimane o si presume rimanga coinvolto. Per andarti a prendere i doni di Gadda, Manganelli o Longhi devi alzare il braccio previa mediazione di un personal trainer. Un tutorial.
Il primo a saperlo era Vittorini che il pelo del gattopardo non volle mai accarezzare. Le storie del principe di Salina per lui odoravano di secondo Ottocento. Ma dire così negli anni Cinquanta, che sono quelli del Neocaravaggismo di Guttuso e Rossellini, è un’offesa. L’Ottocento è un secolo che sa di tinello o stalla (mentre Manet e Cézanne sono forma inodore e pensiero stupendo). Per uno storico d’arte come Longhi l’Ottocento è lo «stupido secolo italiano».
Beatamente ignaro degli strali longhiani Luchino Visconti, nel Gattopardo del ’63, fa una lezione universitaria sul museo dell’Ottocento reinventando i piani sequenza risorgimentali di Michele Cammarano e gli interni di Silvestro Lega (mentre Pasolini squadernava dinanzi a sé il volumone sul Manierismo di Giuliano Briganti). Un anno dopo, nel ‘64 l’Eco di Apocalittici e Integrati (1964) enuclea, dal testo «piacevole e dignitoso» di Tomasi, l’apparizione di Angelica nel palazzo di Donnafugata promuovendola a prodotto, a bene di consumo; quasi kitsch.
Ma in questa gara con la pittura Visconti, Pasolini e Tomasi, tutti furono superati da Steiner. Che, a cinquantacinque anni, riesce nell’impresa di impiantare una veste criptica e di impatto. Sperimentale e popolare insieme. Non la capisco del tutto eppure mi prende. Steiner forgia il suo, di lettore del Gattopardo, proponendogli una copertina che è il cimitero dell’Ottocento. Per questo, al posto di un quadro nitido manipolò, fino a renderla vagamente orrifica, un’immagine tipizzata di quel secolo.
L’Ottocento si poteva reinventare solo così: come fosse stato passato al vaglio del ricordo, come un dipinto di Gerhard Richter. Fatale si forniscano le fattezze di Lancaster a quel signore baffuto verso cui si inchinano tre persone. La copertina volge il Gattopardo in direzione imprevedibile e imprevista. Il nome dell’autore in neretto tondo. Il titolo più grande in corsivo (con la g in maiuscolo); in basso, infine, l’editore. Steiner rende Tomasi sperimentale. Lo steinerizza. Così, per niente domo, il gattopardo avrebbe persino potuto affilare le unghie dalle parti del Gruppo 63 di Eco, Sanguineti, Manganelli e altri. Paradossi del mainstream.
Stefano Causa
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