Arabella Cifani
Leggi i suoi articoliSe ne avete le scatole piene di tutta la melassa natalizia, siete stufi di volere bene alla zia e alla suocera, al cugino fortunato come Gastone, e magari anche a vostro fratello che non paga mai le spese e vi appioppa la responsabilità di genitori quasi centenari, se vi identificate in Mercoledì Addams che vorrebbe cremare tutti i Babbi Natali e arrostire i cammelli dei Re Magi a fuoco lento, allora questo articolo fa per voi.
Qui non parliamo delle «Adorazioni dei Magi» di Gentile da Fabriano dove tutti sono vestiti secondo la stagione dell’alta moda fiorentina del 1423 e sono lì per farsi vedere, e nemmeno dell’«Adorazione dei pastori» di Rubens di Fermo, che ormai viene usata da tutte le parrocchie per il manifestino con gli orari delle celebrazioni natalizie. Non vogliamo vedere nemmeno i chilometri di stoffa srotolati da Tiepolo nei suoi quadri manifesto. E, d’altra parte, anche quello che è venuto dopo è stato ridotto a dolciastro stereotipo devozionale. Molte di quelle opere d’arte non erano nate con questa prospettiva.
Ci sono altri Natali, come quello «Dei rimasti» (i poveri vecchi del Pio Albergo Trivulzio di Milano) del 1903, primo dipinto di una lunga serie che il grande Angelo Morbelli dedica a quel luogo triste di dimenticati che attendono la morte. Pochi vecchi abbandonati anche il giorno di Natale in uno stanzone squallido, con una stufa e un raggio di sole che li trafigge prima della subitanea sera (la pittura ha preceduto di quasi trent’anni la poesia di Quasimodo). Difficile essere più efficaci nel descrivere la solitudine esistenziale.
Ci sono Natali «altri» che sono stati illustrati e dimenticati (danno fastidio) fin dall’Ottocento, soprattutto da grandi disegnatori e illustratori, da La piccola fiammiferaia di Hans Christian Andersen, pubblicata per la prima volta nel 1848, a Gustavo Doré e alla sue incisioni del 1872 per il volume London, A Pilgrimage (Londra, un pellegrinaggio) in cui, in una sorta di fotoreportage ante litteram si delinea la miseria degli slums fatiscenti con, fra i tanti orrori, bambini abbandonati per strada e portati nella notte di Natale in una sorta di orrido orfanatrofio. E come non ricordare il talentuoso pittore polacco Witold Wojtkiewicz (1879-1909) che in «Biedota z choinką» del 1902 («Povertà con l’albero di Natale», Varsavia, Narodowe Muzeum) traccia con pochi tocchi una striminzita e miserabile famigliola che si trascina tutta contenta uno spelacchiato alberino? Il tono è caricaturale ma c’è poco da ridere. E poi ancora la «Fantasia di Natale» di Charles Dana Gibson (1867-1944), illustratore americano, pubblicata nel 1900 a New York con un bambino abbandonato al gelo che nella notte di Natale sogna che torte, tacchini e giochi vengano a lui in una allegra sarabanda. Ci sono poi i pittori, tanti gli alternativi in realtà, dallo svedese Johan Otto Hesselbom (1848-1913) che con la sua «Vigilia di Natale al cimitero» (1896, collezione privata) ci presenta una Spoon River nordica e gelida dove brilla solo la luce di un alberino di Natale in un cimitero con una persona che veglia e piange. Del pittore tedesco Oskar Freiwirth-Lützow (1862-1925) citiamo un efficace «Natale solitario» (collezione privata) con una triste e anziana signora che Natale lo celebra da sola, con un albero imbandito e illuminato sul tavolo, cercando di soffocare la tristezza che le affiora in viso.
Ma a Natale, si dice, dovremmo essere buoni e anche in armonia. Non pare però che sia così. In realtà girano personaggi cattivissimi nel sacro giorno della pace, Babbi Natale armati, dotati di pistola come quello, faccia da rapinatore e fra le mani sacco per il malloppo, di Will Crawford in «Mani in alto!», illustrazione del 1912 per la celebre rivista «Puck». I fratelli di questo Babbo circolano ancor oggi e negli Stati Uniti catene di vendita di armi si fanno pubblicità con inquietanti Babbi Natali dotati di mitragliette ultimo modello. Devono aver trovato adepti in tutto il mondo da quel che possiamo appurare ogni giorno.
E a quei tre poveretti della Sacra Famiglia che cosa resta? Per prima cosa si deve constatare che tutti li ignorano e festeggiano una cosa che non sanno più riconoscere correndo dietro a regalini, renne, sci, giochi, cibarie, vini affatturati, capricci. Nel «Viaggio a Betlemme» (1890, Monaco, Neue Pinakothek) di Fritz von Uhde (1848-1911), Giuseppe e Maria, sotto le vesti di due poveri contadini, camminano su una stradaccia fangosa, in un inverno freddo che aggriccia il cuore: il percorso è ancora lungo e camminare con una donna incinta all’ultimo mese è pesante. Grande pittore, Von Uhde non piaceva all’arte ufficiale accademica tedesca e amava attualizzare i racconti evangelici trasportandoli nel suo tempo. E anche la sua «Notte santa» della Pinacoteca di Dresda respira con una profonda spiritualità fra angioletti lievi come piume, contadini sassoni pesanti come massi, e una Madonna buttata a terra in una vera stalla, sporca e cadente.
E, infine, come viaggiarono i Magi per raggiungere Betlemme? Oggi sarebbe un percorso sotto le bombe e, come allora, infestato da briganti, e governanti malvagi, pronti a buttare Magi, seguito e cammelli (e anche la stella se l’acchiappano) in una fossa comune, ma anche allora non doveva essere facile seguire la stella come spiega Thomas Eliot in una sua splendida poesia del 1927 :«Fu un freddo avvento per noi, / Proprio il tempo peggiore dell’anno / Per un viaggio, e per un lungo viaggio come questo: / Le vie fangose e la stagione rigida, Nel cuore dell’inverno. / E i cammelli piagati, coi piedi sanguinanti, indocili, / sdraiati sulla neve che si scioglie. / Ci furono momenti in cui rimpiangemmo / I palazzi d’estate sui pendii, le terrazze, / E le fanciulle di seta che portavano il sorbetto». Chissà se, attraversando fiumi e valli, furono veramente accompagnati da un angelo luminoso che li esortava a seguire la stella, come nel dipinto «I tre Re Magi in viaggio» dell’austriaco Joseph Binder (1805-63).
Ci sono dunque altri Natali, più limpidi, più puri, frequentati dall’arte, dalla poesia, dalla musica. Provate a cercarli.
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