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Un dettaglio di «San Giovanni Battista e un paesaggio nello sfondo» sullo schermo di un computer

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Un dettaglio di «San Giovanni Battista e un paesaggio nello sfondo» sullo schermo di un computer

Nel labirinto della bottega di Leonardo

Nuovi e importanti studi e scoperte, con indagini diagnostiche all’avanguardia, sull’enigmatica tavola del «San Giovanni Battista» della Pinacoteca Ambrosiana di Milano

Arabella Cifani

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Già documentata nelle collezioni dell’Ambrosiana almeno dal 1671, la tavola con «San Giovanni Battista e un paesaggio nello sfondo» ci sfida, con il sorrisetto beffardo del suo protagonista, da circa cinquecento anni. Ha mantenuto a lungo i suoi segreti ed è stata attribuita prima ad Andrea Salaino, il turbolento allievo di Leonardo, poi cassata, poi ripresa, poi scartata definitivamente, quando un quadro di Salaino datato e firmato è entrato (recentemente) a far parte delle collezioni dell’istituzione milanese. Il confronto diretto non ha lasciato scampo. Non era Salaino. Un’accuratissima indagine effettuata con strumentazioni d’avanguardia ha ora permesso di trovare, finalmente, sorprendenti novità su quest’opera. Se n’è fatta carico la Direzione Artistica di Banca Patrimoni Sella & C. che ha organizzato e seguito tutta la ricerca in collaborazione con la Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano. Ne è anche scaturita una prestigiosa pubblicazione di studi (Cimorelli Editore) che ha visto, fra gli altri, interventi di un raffinato studioso leonardesco come Edoardo Villata (College of Arts, Northeastern University, Shenyang, China), di Daniela Magnetti (Direttrice Artistica di Banca Patrimoni Sella & C.) e di Antonio Forcellino.

Su uno sfondo verdeggiante di piante e di prati, dagli steli e dalle foglie dipinte una a una, si staglia un bellissimo giovane da lunghi capelli inanellati (identificabile nel Salaino tante volte ritratto da Leonardo) che ci guarda dritto negli occhi. Con un gesto fermo ma deciso indica il cielo e pare ci inviti tutti a guardare in quella direzione. Alle sue spalle si apre un paesaggio azzurrino di acque, di nubi e di montagne rocciose simile a quelli che Leonardo dipinse dietro la «Vergine delle Rocce» e alla «Gioconda». Non è un luogo preciso, ma chi l’ha dipinto aveva sotto agli occhi direttamente le opere di Leonardo, accedeva al suo studio e ha potuto osservare con tutta calma i dipinti del maestro. Ma erano in pochissimi quelli che potevano avere questo privilegio.

Villata si addentra con coraggio leonino nella giungla della bottega di Leonardo: un campo minato che ha già fatto molti morti e feriti, suscitando sfide fra studiosi che in altri tempi si sarebbero risolte con duelli all’ultimo sangue. Scartando a destra e a sinistra, lo studioso è giunto alla conclusione che l’autore dell’opera si aggiri fra i «primi collaboratori di Leonardo a Milano: Andrea Solario, Cesare da Sesto, Francesco Melzi» ma che, tuttavia, non sia nessuno di essi.  Non «un allievo di Leonardo in senso stretto» ma un «intelligente riproponitore di sue composizioni».

E allora in quale labirinto si cammina? Viene ricostruito con millimetrica pazienza un piccolo corpus di opere di questo ignoto che, come d’altra parte faceva Leonardo stesso, deride tutti noi (e credo continuerà a farlo per molto tempo). Un pittore che si forma nel secondo decennio del Cinquecento, è attratto dalle opere di Leonardo, ma non ne conosce i capolavori tardi. Dunque un milanese (o comunque uno che stava a Milano), che Leonardo l’aveva visto solo lì. Uno però che accedeva «ai materiali grafici vinciani, disegni e cartoni». Pare che uno solo si potesse permettere questa confidenza: Francesco Melzi, che li aveva ereditati direttamente da Leonardo e che nel 1520, dopo la morte del maestro avvenuta l’anno prima, rientra in Italia con un carico preziosissimo di disegni e cartoni. L’autore della tavola, in conclusione è, secondo Villata, un «petit maître», forse un raffinatissimo dilettante legato al Melzi da vincoli sociali o di amicizia stretta e da lui introdotto al culto leonardesco, «capace di eseguire a punta di pennello raffinate derivazioni dagli ormai irraggiungibili originali vinciani», una nuova e «interessante personalità di seguace, legato forse più a Francesco Melzi che direttamente allo stesso Leonardo».

Di questo dipinto esiste un celebre prototipo vinciano al Louvre, che Leonardo si portò in Francia quando vi si stabilì nel 1516, ma tanto la tavola dell’Ambrosiana è luminosa e colorata quanto quella di Leonardo è scura con Giovanni che emerge da un’ombra densa che conferisce alla figura un forte rilievo. Se n’è dedotto che l’autore della tavola milanese non avesse davanti il dipinto del maestro ma solo il cartone e altri disegni che furono alla base della fortuna iconografica in Italia del tema riprodotto nel tempo da molti allievi ed epigoni.

Il paesaggio retrostante al San Giovanni durante le analisi ha dato risultati molto significativi poiché fu realizzato tutto con lapislazzulo: una costosissima pietra semipreziosa che al tempo giungeva in Italia direttamente dalle montagne azzurre dell’Afghanistan percorrendo la Via della seta e che costava come e più dell’oro. Il lapislazzulo macinato, che diveniva un pigmento detto blu d’oltremarino, nei dipinti era oggetto di contratti particolari e la sua presenza è sempre indizio di un’opera eseguita da un pittore di qualità per una committenza di alto livello. A questo dettaglio il volume di studi dedica un capitolo a sé, scritto da Roberto Giustetto e dalla compianta Debora Angelici.

Un sofisticato approfondimento chimico e sulla «Diagnostica del pigmento» è stato invece offerto dalla relazione del laboratorio di analisi e restauro di Thierry Radelet di Torino, che ha effettuato una fluorescenza a raggi X e un infrarosso in falso colore da cui appaiono evidenti piccoli pentimenti e ritocchi dei secoli passati. L’indagine tecnica ha anche evidenziato il disegno dell’opera, riapparso, grazie alla fluorescenza ultravioletta (Uv), in tutto il suo splendore (commentato da Filippo Timo). Confronti tecnici e scientifici con restauri delle «Gioconde» romane Torlonia della Pinacoteca Nazionale di Palazzo Barberini e della Fondazione Primoli di Roma sono stati offerti da Antonio Forcellino.

È evidente, in conclusione, che la diagnostica per immagini di dipinti di questo tipo, esattamente come per le analisi mediche di livello sofisticato oggi possibili, sia in grado di rivelare infinite informazioni che non conoscevamo, discernere falso dal vero, attribuire e selezionare con certezza. Quello che nessuna analisi potrà mai comprendere però è se l’opera indagata possegga o meno un’anima, ci parli, ci interroghi. La silenziosa e ovattata sala dei leonardeschi della Pinacoteca Ambrosiana ha ancora molti segreti da rivelarci. 

«San Giovanni Battista e un paesaggio nello sfondo» durante gli esami diagnostici

Arabella Cifani, 18 novembre 2024 | © Riproduzione riservata

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