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«La primavera allegra» (1965) di Cesare Tacchi, Reggio Emilia, Collezione Maramotti

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«La primavera allegra» (1965) di Cesare Tacchi, Reggio Emilia, Collezione Maramotti

A Cesare quel ch’è di Cesare

A Roma, finalmente, una completa retrospettiva di Tacchi, pop, concettuale e «neopittore»

Federico Castelli Gattinara

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Sarebbe bello che il Palazzo delle Esposizioni riservasse un filone di mostre ai tanti grandi artisti italiani di secondo Novecento, o almeno romani, che ancora hanno bisogno di essere studiati in maniera più sistematica. È il caso della mostra «Cesare Tacchi. Una retrospettiva», aperta dal 7 febbraio al 6 maggio a cura di Daniela Lancioni e Ilaria Bernardi, che rende finalmente giustizia a un grande ma un po’ trascurato protagonista della scena degli anni Sessanta e Settanta, scomparso nel 2014 a 74 anni.

Si tratta di un’ampia monografica accolta con entusiasmo dai tanti che hanno conosciuto l’artista, che hanno lavorato con lui, che possiedono sue opere. La mostra, resa possibile dalla totale collaborazione dell’Archivio Cesare Tacchi nato di recente grazie alla moglie Rossana Palma e alla figlia Gaia Lisa Tacchi, raccoglie una vasta mole di dati, approfondisce la ricerca e restituisce alla città una figura molto amata. Un centinaio le opere esposte in tutto il piano centrale del Palazzo attorno alla rotonda, che viene riservata a cataloghi e documenti, con monitor per video anche inediti.

Il percorso è cronologico. Parte con un quadro informale del 1959 per passare subito ai rilievi di legno del 1961 e poi ai già famosi smalti con particolari di macchine da corsa. Ancor prima delle tappezzerie che lo hanno reso celebre, ci sono autoritratti, i monumenti di Roma visti dai finestrini delle auto e i primi quadri «imbottiti», tra i quali il ritratto di Paola Pitagora del 1964. Tra le notissime «tappezzerie», alcuni capolavori, come i due del 1965 provenienti dalla collezione Maramotti di Reggio Emilia: «La Primavera allegra» e «Sul divano a fiori», con le silhouette degli amici Mario Ceroli e Sergio Lombardo.

La versione del «pop» di Tacchi è un’umanità borghese e dialogante, amici e coppie felici sedute in poltrona, sdraiate su letti o prati e nelle icone della storia dell’arte come la Primavera di Botticelli. Poi vengono i disegni del ’68, la «Porta che non si apre», lo «Strumento che non suona», la «Cornice» prestata dalla Galleria Nazionale, la «Poltrona» concessa da Ovidio Jacorossi e la documentazione della famosa performance al Teatro delle Mostre da Plinio De Martiis nel 1968, con una vera chicca: la lastra originale di vetro della «Cancellazione d’artista» ritrovata a casa di una delle figlie del gallerista.

E ancora, lavori del periodo concettuale, tutti diretti verso l’annullamento e l’afasia, fino alla performance «Il Rito», durante la quale Tacchi bacia il pavimento dello spazio espositivo come a riconsacrarlo, e dal multiplo «Painting» nello studio di Elisabetta Catalano, con la graduale riapparizione di Tacchi come artista (lui che pulisce la lastra di vetro e vi ricompare dietro). Fu tra i primissimi a ritornare alla pittura. L’ultima sala è una carrellata veloce di dipinti (con una scultura degli anni Novanta) fino ai giorni nostri. Catalogo con testi delle curatrici e un’antologia critica: con saggi, tra gli altri, di Calvesi, Fagiolo, Diacono, Masi e Marramao.

«La primavera allegra» (1965) di Cesare Tacchi, Reggio Emilia, Collezione Maramotti

Federico Castelli Gattinara, 08 febbraio 2018 | © Riproduzione riservata

A Cesare quel ch’è di Cesare | Federico Castelli Gattinara

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