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Luca Avigo
Leggi i suoi articoliNella Chiesa di San Carlo a Cremona si avverte lo stesso silenzio che ci sarebbe se non fosse sconsacrata. L’unico rumore insolito è uno sporadico crepitio, come di innocui petardi: il suono delle lampadine che scoppiano sotto i passi dei visitatori sovrappensiero, impegnati ad attraversare con cautela «100 giorni», l’opera site specific di Massimo Bartolini visitabile fino al 16 gennaio. Gli scoppi non suscitano reazioni dai custodi: probabilmente hanno messo in conto qualche danno, o forse fanno parte del lavoro stesso, che consiste in una gabbia monumentale (sei metri di altezza, sei di larghezza, ventuno di lunghezza) le cui pareti sono reticoli di luminarie festive siciliane spente. Giunti da Messina (con difficoltà, ammette l’artista), i telai di legno bianchi, gialli e rossi con relative lampadine colorate si stratificano su ogni faccia del volume, anche sul pavimento. Ne risulta un’architettura dentro l’architettura, percorribile lungo uno stretto corridoio esterno o attraverso un intricato percorso interno tra i telai, condannando inevitabilmente alcune lampadine a soccombere sotto passi falsi.
Ma questa è solo l’introduzione. Superata la navata centrale, invasa dal reticolato policromo, si raggiunge l’abside, dove un bagliore rosso invita ad aggirare l’altare. Qui, di fronte al coro, compare l’altra metà dell’opera: un neon rosso che recita, in calligrafia incerta, «giorni 100 uomo Serpente il cane», replica di graffiti anonimi scelti dall’artista nel Museo delle Prigioni di Pizzighettone, carcere attivo dal 1785 al 1954.
«100 giorni» funziona per dialettica: lo spegnimento delle luci della collettività e della festa da un lato, e l’accensione (o «urlo», come dice Bartolini) del singolo senza voce dall’altro. Ma anche l’interazione di compressione ed espansione, che guidano lo spettatore attraverso variazioni percettive e conferiscono senso ai due poli per contrasto. Un procedimento inverso a quello messo in pratica dall’artista alla Biennale di Venezia del 2024 con «Due qui / To Hear»: prima un antro buio e vuoto, tranne per una lunga canna d’organo e una statuetta buddhista, poi uno spazio gremito da un’immensa costruzione attraversabile in tubi innocenti.
L’opera cremonese non si limita però a riprendere un approccio rodato, perché si rivela essere un riadattamento minuzioso di «Caudu e Fridu» (2018), realizzato per Manifesta 12 a Palermo. Allora Bartolini aveva collocato in una sala di Palazzo Oneto di Sperlinga una gabbia di luminarie spente, e in quella accanto un neon tratto da graffiti del Palazzo Chiaramonte Steri, sede nel XVII secolo del tribunale dell’Inquisizione.
L’artista toscano (1962) rivendica l’indipendenza del nuovo lavoro: «Per me, dice, è impossibile rifare un lavoro. Ogni lavoro è irripetibile. Nel tentativo di rifare un lavoro in contesti diversi lo si informa di nuove caratteristiche». Tuttavia, il confronto con Palermo è inevitabile e le «nuove caratteristiche» restano sottili. A Cremona le luminarie risultano più stranianti, poiché estranee al contesto, mentre la scritta al neon, privata delle implicazioni storiche dell’Inquisizione, appare più immediatamente umana, legata a vite comuni segnate da un carcere come tanti. È abbastanza per giustificare la replica esatta di un lavoro nato come site specific?
Paradossalmente, un altro confronto chiarisce la questione. Perché già nel 2011 Bartolini aveva utilizzato luminarie con «La strada di sotto», alla galleria MASSIMODECARLO di Milano: un pavimento di telai luminosi, identico a quello visto a Palermo e visibile oggi a Cremona, con però una differenza decisiva: quelle luci si accendevano. È in questa distinzione minima ma essenziale che «100 giorni» trova il proprio radicamento in San Carlo.
Bartolini richiama il concetto di «daimon» come formulato da James Hillman in Il codice dell’anima: «Qualcosa, in ciascuno di noi, che ci induce a essere in un certo modo, a fare certe scelte, a prendere certe vie - anche se talvolta simili passaggi possono sembrare casuali o irragionevoli». Questo qualcosa l’artista lo riconosce negli oggetti, ed è così che fa arte. Ed è così che «100 giorni» esiste: poco conta che fosse già stato fatto.
Il termine greco «daimon» significa «demone», per definizione un’entità intermedia tra umano e divino. E in effetti le luminarie festive sono umane nella fruizione e divine nell’aspirazione, proprio come una chiesa. Così, unite nella morte, le luminarie spente e la chiesa sconsacrata si appartengono. Hillman scrive: «Più ti mantieni fedele al tuo daimon, più sei vicino alla morte che appartiene al tuo destino», e «100 giorni» è il compimento di tale morte. Conclude Bartolini: «Così come una chiesa sconsacrata trattiene il sacro nella forma e nel silenzio, così le luminarie trattengono le luci anche da spente». A San Carlo queste due anime latenti si riconoscono e si svelano.
Strano dirlo di un’opera nata altrove e in altro tempo, ma «100 giorni» sembra non poter esistere che qui. Per un lavoro site specific, questo è il traguardo più alto.

Massimo Bartolini, «100 giorni», 2025, luminarie e neon. Luminarie: 600x600x2.100 cm, neon: 225x50 cm. Courtesy San Carlo Cremona and the artist. In collaboration with MASSIMODECARLO. Photo Andrea Rossetti

Massimo Bartolini, «100 giorni», 2025, luminarie e neon. Luminarie: 600x600x2.100 cm, neon: 225x50 cm. Courtesy San Carlo Cremona and the artist. In collaboration with MASSIMODECARLO. Photo Andrea Rossetti