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Manuela De Leonardis
Leggi i suoi articoliC’è una storia forte dietro ogni lavoro esposto nella collettiva «we refuse_d», curata da Vasıf Kortun e Nadia Radwan al Mathaf (Arab Museum of Modern Art) di Doha, in Qatar, con le opere di Taysir Batniji, Sandi Hilal & Alessandro Petti (Daar), Samia Halaby, Majd Abdel Hamid, Emily Jacir, Jumana Manna, Walid Raad, Khalil Rabah, Yasmine Eid Sabbagh, Nour Shantout, Suha Shoman, Dima Srouji, Oraib Toukan e Abdul Hay Mosallam Zarara. Una mostra che, fino al 9 febbraio 2026, celebra il 15mo anniversario del museo focalizzato sulla scena artistica moderna e contemporanea del Qatar, del Medio Oriente e della diaspora araba, nata dalla conversazione tra i curatori e i diversi artisti e artiste all’indomani della cancellazione, poco prima dell’opening nel dicembre 2023, della retrospettiva dell’artista palestinese-statunitense Samia Halaby all’Indiana University a causa delle sue dichiarazioni a favore della Palestina pubblicate sui social media.
Sviluppata in partnership con il M HKA-Museum of Contemporary Art Antwerp di Anversa, che la ospiterà nella primavera 2026, «we refuse_d» è una mostra dallo sguardo plurale che nell’urgenza di affrontare la gravità del presente, parla prima di tutto di vita, dell’amore e della resilienza di queste artiste e artisti contemporanei appartenenti a diverse generazioni (l’unico a non essere più vivente è Abdul Hay Mosallam Zarara, 1933-2020) che raccontano le proprie radici, tra memoria personale e collettiva, facendosi portavoce delle complesse sfaccettature di una storia rimossa che riguarda sì la Palestina, ma in assoluto l’umanità intera. Il titolo evoca il Salon des Refusés nella sua identità di simbolico spazio di libertà, quanto all’implicita citazione del saggio We Refugees di Hannah Arendt sottende quella traumatica dell’esilio. «“we refuse_d” risponde direttamente alla recente ondata di cancellazioni, censure, silenzi e diffamazioni nei confronti di artisti che hanno preso posizione su guerre, conflitti e rivolte, in particolare nel caso della Palestina, afferma Zeina Arida, direttrice del Mathaf. In questo clima, l’atto di fare arte diventa un’affermazione di presenza e di rifiuto. Ci rifiutiamo di smettere di fare arte, arrenderci e scomparire. In questo contesto, abbiamo pensato anche alla necessità del Mathaf di essere ancora più presente come sistema di supporto per i nostri artisti e artiste contemporanei ma anche come “casa” per presentarli insieme e narrare le loro storie».
Jumana Manna, «Your Time Passes And Mine Has No Ends» nella mostra «we refuse_d», Doha, Mathaf. Photo: Manuela De Leonardis
Il percorso inizia dalla ricerca «Refugee Heritage 2015-2025» di Daar-Decolonizing Architecture Art Research (la documentazione fotografica è di Luca Capuano, mentre il book design di Rosanna Lama), che ribalta il concetto convenzionale di eredità in relazione all’esperienza dei campi profughi palestinesi dopo la Nakba, per concludersi con la grande installazione «Your Time Passes And Mine Has No Ends» di Jumana Manna (commissionata unitamente da Hawai’i Triennial 2025 e Mathaf), che trasforma la sala del museo in uno spazio pubblico con i banner che ricordano i panni stesi su davanzali e balconi di un vicolo. L’artista visiva e filmmaker palestinese riporta su queste bandiere di tessuto frasi di prigionieri politici palestinesi, tra cui Walis Daqqa e la parlamentare, femminista e sostenitrice dei diritti dei prigionieri Khaleda Jarrar, creando un corpo collettivo in cui le voci sembrano rincorrersi tra un balcone e un davanzale.
Tra i progetti commissionati anche l’installazione che Walid Raad ha realizzato in collaborazione con il type designer belga Pierre Huyghebaert: una visualizzazione confusa e illeggibile della stratificazione del non detto e dei compromessi che si determinano nella gestione di un’istituzione museale, quando non si ha il coraggio di prendere una posizione chiara nei confronti di scelte artistiche che sono anche politiche. In progress il progetto video «on solidarity and (the difficulties of) being in the world today» che Yasmine Eid Sabbagh, artista che ha vissuto tra il 2006 e il 2011 nel campo profughi palestinese di Burj al-Shamali, fondato nel 1948 vicino Tiro in Libano, sta realizzando in Senegal insieme a Tabara Torka Ndiaye e Ndeye Debo Seok. Un’esplorazione della dimensione della solidarietà senegalese, sia storicamente sia nella nostra contemporaneità, verso il popolo palestinese. Parlando ancora una volta di cancellazione, anche il lavoro della giovane artista siriana Nour Shantout (palestinese da parte materna) «The crisis dress» (parte della serie «Searching for the New Dress» collegata al progetto «Museum of Smuggled Dresses») è una contro-narrazione su dislocamento, esilio e marginalizzazione che tuttavia, proprio attraverso l’abito con i tradizionali ricami palestinesi (thob) del campo di Shatila, appartenuto alla nonna, pur nella sua essenzialità diventa un vero e proprio vessillo di sopravvivenza quotidiana.
Taysir Batniji, «Homeless colors» e «Just in case» nella mostra «we refuse_d», Doha, Mathaf. Photo: Manuela De Leonardis