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Grazia Deledda

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Grazia Deledda

A Nuoro, la passione di Grazia Deledda per l’arte

«Sono in visione alcune opere di Nicolina, sorella minore di Grazia, che entrò a far parte della famiglia Madesani Deledda, quando decise di non sposarsi e di dedicarsi all’arte sollecitata dalla sorella più famosa, che le suggerì come maestro Vincenzo Jerace», spiega la curatrice Maria Elvira Ciusa

Grazia Deledda (1871-1936), prima donna italiana a ricevere il Premio Nobel per la Letteratura, «nel 1901 fu inviata, o si fece inviare, dal quotidiano “L’Unione Sarda” alla IV Biennale d’arte di Venezia presentandosi come esperta nella recensione di avvenimenti legati alle arti figurative», sottolinea Maria Elvira Ciusa, curatrice della mostra «Alba di un capolavoro. Grazia Deledda e Vincenzo Jerace» che verrà inaugurata a Nuoro il prossimo 9 dicembre nella Casa Museo della scrittrice, sotto le insegne dell’Istituto Superiore Regionale Etnografico della Regione Autonoma della Sardegna. Una passione per l’arte, quella di Deledda, che viene valorizzata da Ciusa, pronta ad annunciare che «in questa esposizione abbiamo voluto ricostruire il tessuto affettivo di un quotidiano fatto di cose semplici e di legami profondi. Sono in visione alcune opere di Nicolina, sorella minore di Grazia, che entrò a far parte della famiglia Madesani Deledda, quando decise di non sposarsi e di dedicarsi all’arte sollecitata dalla sorella più famosa, che le suggerì come maestro Vincenzo Jerace. Lo scultore all’inizio del Novecento si era trasferito a Roma da Napoli, dove aveva il suo atelier, e aveva ideato e dato forma al bellissimo Redentore, collocato nel 1901 sul monte Ortobene, a ricordo del Giubileo indetto dal papa Leone XIII. Aveva il suo studio sull’Esquilino e qui Nicolina maturò l’arte del disegno dopo un primo apprendistato a Nuoro sotto la guida di Antonio Ballero. Nicolina, insieme alla nipote Mirella e alla cognata Palmira, furono le figure femminili più vicine alla scrittrice. Mirella, figlia della sorella Peppina, diventò per Grazia la sua “fiza ’e anima” e nel testamento la lasciò erede di 50mila lire suscitando malumori nella famiglia di suo figlio Franz, come siamo venuti a sapere. Aveva preso posto nel suo cuore prima della nascita di Pitì, figlia di Franz. A Mirella aveva dedicato una novella e a lei si era ispirata per creare il personaggio della piccola Olla nel romanzo La fuga in Egitto».

Ciusa in ambito accademico è ritenuta la «massima esperta» della scrittrice avendo approfondito ogni aspetto della sua vita e delle opere, anche grazie alla conoscenza e allo studio di preziosissime carte ancora inedite, e a «Il Giornale dell’Arte» evidenzia che «Jerace aveva pubblicato un breve saggio dal titolo “La donna nelle opere di Michelangelo”. Le riflessioni sul linguaggio pittorico e scultoreo del genio fiorentino avevano suscitato l’interesse di Deledda in un momento in cui, uscita dal lutto per la morte del padre (1892), riprendeva a tessere le sue trame per farsi conoscere presso un pubblico più vasto di scrittori ed artisti». Vincenzo Jerace (1862-1947) «era soprattutto noto per le sue imponenti opere a carattere celebrativo», stimato dalla regina Margherita. Ciusa ricorda che «nel 1895 non si pensava ad una monumentale statua da collocare sul monte Ortobene a Nuoro. Solo più tardi il comitato ecclesiastico, scelto dal papa, decise che in venti cime di montagne, e tra queste il monte Ortobene, venissero erette statue del Cristo Redentore, a ricordo di tutti gli anni giubilari. Le opere dovevano rappresentare il segno visibile del Giubileo e diventare espressione della pacificazione tra gli uomini, sotto l’egida della Chiesa». E «in un luogo, che per molto tempo era stato teatro di vendette omicide, Jerace elaborò, nel suo atelier di Napoli, l’originale e monumentale statua in bronzo del Redentore. L’opera fu subito considerata dalla critica un autentico capolavoro tra l’eccelsa produzione a tema sacro dell’artista. Basti pensare soltanto al grande candelabro del cero pasquale da lui elaborato per il Santuario di Pompei. Jerace, partito dalla visione verista della scultura, approdò con il Redentore di Nuoro ad un potente simbolismo di matrice liberty, che aveva già sperimentato nei suoi “radiolari”, dove flora e fauna dei fondali marini, diventarono, sotto le sue sapienti mani, vasi, capitelli ed elementi decorativi unici e originalissimi nell’ambito del più vasto mondo del liberty europeo». 

Questo «Redentore non lascia indifferenti coloro che si recano in pellegrinaggio sul monte Ortobene, non solo per la sua maestosità, ma anche e soprattutto per tutta la composizione che poggia su un solo lembo della veste che avvolge il Cristo. L’opera, che doveva suggerire l’idea della lievità, viene studiata apposta dallo scultore per essere esposta ai venti». E qui, rileva Ciusa, si erge anche l’importanza assunta dalla «giovane Grazia Deledda, già da allora nota nel mondo dei letterati e degli scrittori, s’impegnò in prima persona a far sì che l’opera si realizzasse. Ci volevano i soldi, soprattutto per la fusione in bronzo, dal momento che lo scultore aveva rinunciato al suo compenso. L’accorato appello di Grazia Deledda dalle pagine dei giornali locali, come riferiscono le cronache del tempo, fu di grande aiuto per la riuscita dell’importante statua». Tra «i sottoscrittori vi fu anche la regina Margherita, che leggeva e amava i romanzi della scrittrice. E consistenti furono le offerte provenienti dal vescovo di Nuoro, monsignor Salvator Angelo Demartis e anche dai poveri contadini, dagli artigiani e da tutti i sardi che si sentirono uniti nel comune spirito religioso». Appare cosi il ruolo da protagonista di Deledda: «I primi contatti con lo scultore furono forse determinanti sulla scelta dell’artista a cui affidare la realizzazione del Redentore».

Gianfranco Ferroni, 02 dicembre 2025 | © Riproduzione riservata

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