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«Senza titolo», 1991, di Maria Lai. M77 Gallery, Milano. Courtesy M77 Gallery e Archivio Maria Lai. Photo credit Lorenzo Palmieri

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«Senza titolo», 1991, di Maria Lai. M77 Gallery, Milano. Courtesy M77 Gallery e Archivio Maria Lai. Photo credit Lorenzo Palmieri

Al MaXXI gli anni ’60 di Maria Lai

Oltre 250 lavori dell'artista sarda. Parallelamente, un'antologica dall'Ivam di Valencia

Federico Castelli Gattinara

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Maurizio Nannucci, Piero Gilardi e ora Maria Lai. Un filo lega queste monografiche su figure non scontate organizzate dal MaXXI restituendo loro la giusta posizione in una storia dell’arte italiana recente fatta in modo troppo limitato.

In occasione del centenario della nascita dell’artista sarda, la mostra «Maria Lai. Tenendo per mano il sole» (catalogo 5 Continents), a cura di Bartolomeo Pietromarchi e Luigia Lonardelli, dal 19 giugno al 12 gennaio, la fa rivivere non soltanto dal punto di vista delle opere, oltre 250, ma soprattutto per ciò che ha rappresentato per l’arte, in particolare per le azioni di arte pubblica, per gli interventi negli spazi urbani e per l’aspetto pedagogico e didattico del suo lavoro che ne fanno una figura molto anticipatrice di quegli anni.

Da qui la scelta di parlare solo del secondo periodo, ovvero della sua produzione che dai primi anni Sessanta arriva fino alla morte, avvenuta nel 2013. Perché fino agli anni Cinquanta il suo approccio all’arte è abbastanza tradizionale, poi per tutto il decennio seguente crea opere ma non espone, ricominciando a partecipare alle mostre solo a partire dal 1971. Se negli anni Sessanta osserva ma non partecipa, si tiene fuori da quel clima e movimenti che dal Nouveau Réalisme alla Pop art arriva fino all’Arte povera, dai primi anni Settanta prorompe con un tipo di arte completamente rinnovato, a partire dai suoi noti telai.

Così Pietromarchi sintetizza la mostra, in modo efficace: «“Tenendo per mano il sole” è il titolo della mostra e della prima, e forse più celebre, “fiaba cucita” realizzata. Nel titolo, e nell’opera, ritornano molti degli elementi presenti nella sua ricerca: il titolo è un verso che richiama il suo interesse per la poesia, il linguaggio e la parola; il sole evoca la cosmogonia delle sue geografie; mentre in “tenere per mano” sono insiti l’aspetto relazionale della sua pratica e la vocazione pedagogica della sua creazione».

Ed è proprio l’idea di arte come relazione, che esploderà negli anni Novanta ma che anticipa già nel suo famoso lavoro «Legarsi alla montagna» del 1981, a fare della Lai un’artista di spessore, estremamente consapevole, come indicano le decine di ore di interviste con il regista Francesco Casu e non solo.

Così come il legame davvero consustanziale tra la sua arte e la sua terra, la Sardegna, mai nascosto, mai occasionale, di cui lei stessa era fortemente cosciente, che anticipa quei post colonial studies che culmineranno nella grande mostra «Les magiciennes de la terre» al Pompidou di Parigi del 1989. Più in generale intendere la sua arte in modo oggettuale e depoliticizzato è quanto di più sbagliato. Il suo lavoro è sempre politico, a partire dagli anni Settanta e dalla riflessione sulla questione femminista, affrontata con compagne di strada come Mirella Bentivoglio. Il concetto di relazione nella sua arte ha una tensione etica e sociale molto evidente: per lei l’arte doveva toccare la coscienza di tutti, non era qualcosa fatto per collezionisti e gallerie, ma uno strumento per la collettività.

La mostra è divisa in sezioni non cronologiche, impostate su binomi che richiamano le diverse pratiche del suo lavoro: cucire e ricucire, giocare e raccontare, disseminare e condividere, incontrare e partecipare, immaginare. «Abbiamo lavorato in strettissima relazione con l’Archivio, che negli ultimi anni ha fatto un grandissimo lavoro di rimessa in ordine», continua Pietromarchi. Anche il nuovo direttore della Stazione dell’Arte di Ulassai, Davide Mariani, è stato coinvolto nella mostra: idealmente l’ultima sezione si apre proprio in quel museo, in contemporanea: «Tenendo per mano l’ombra», altra fiaba cucita di Lai, si concentra sulla dimensione della fiaba, dei racconti popolari e della trasmissione orale. Per la mostra romana un’approfondita ricerca anche tra privati porta molte opere mai esposte. Un buon numero di prestiti vengono dall’Archivio, un nucleo importante da Giorgio Spanu, tra i maggiori collezionisti della Lai. Per l’occasione il MaXXI ha acquisito tre opere, due libri cuciti e una grande geografia su acetato trasparente, e una pagina cucita su carta per la collezione di disegni, tutte esposte.

Intanto fino all’8 settembre «Al norte de la tormenta» espone una scelta di circa 50 opere della collezione Ivam di Valencia, uno dei maggiori musei del contemporaneo in Spagna, con cui il MaXXI rafforza la sua rete internazionale, ricambiando nel 2020 con una rassegna a Valencia delle sue collezioni. Il titolo è quello di una scultura del 1986 di Juan Muñoz, a cui si aggiunge una seconda sua scultura, oltre a lavori di Antoni Tàpies, Robert Rauschenberg, Bruce Nauman, Eduardo Chillida, Tony Cragg, Pedro Cabrita Reis, Richard Tuttle, Cristina Iglesias ed Eulalia Valldosera, il tutto a cura di Hou Hanru con Chiara Bertini.

«Senza titolo», 1991, di Maria Lai. M77 Gallery, Milano. Courtesy M77 Gallery e Archivio Maria Lai. Photo credit Lorenzo Palmieri

Federico Castelli Gattinara, 18 giugno 2019 | © Riproduzione riservata

Al MaXXI gli anni ’60 di Maria Lai | Federico Castelli Gattinara

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