Veduta della mostra «Edges of Ailey» al Whitney Museum of American Art di New York

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Veduta della mostra «Edges of Ailey» al Whitney Museum of American Art di New York

Alvin Ailey al Whitney Museum

Un’ampia mostra riflette sull’eredità artistica e culturale del visionario ballerino e coreografo statunitense

Alvin Ailey (Rogers, Texas, 1931-New York, 1989) non è stato solo un’icona della danza moderna, ma un innovatore visionario e catalizzatore di energie intorno al teatro da lui fondato a New York nel 1958: l’Alvin Ailey American Dance Theatre. La mostra «Edges of Ailey», visibile al Whitney Museum di New York fino al 9 febbraio 2025, riflette sulla vita dell’artista, le sue fonti d’ispirazione e la sua eredità culturale. La rassegna raccoglie materiale d’archivio, video, fotografie, diari personali e oltre 80 opere d’arte (dal 1850 fino ai giorni nostri), che amplificano i temi esplorati nel suo lavoro. L’ampiezza del percorso espositivo riflette l’ambizione dell’artista: «Volevo dipingere, volevo scolpire, scrivere poesie, narrare la storia americana, prima di dedicarmi completamente all’arte di comporre movimenti pieni di immagini».

Allestita in un unico grande ambiente dipinto di rosso, la mostra si apre allo spettatore come le tende di un sipario. Il percorso è diviso per sezioni tematiche che intrecciano l’esperienza personale di Ailey con la storia del movimento dei diritti civili degli afroamericani. Un videoproiettore di 18 schermi presenta una selezione di video con le sue performance e interviste.

«Dance is about blood memories», diceva Ailey. Nato in Texas da una famiglia di coltivatori di cotone, si trasferì a Los Angeles a 12 anni. La sua storia fu segnata profondamente dall’esperienza della Grande Migrazione (1916-70), un periodo in cui oltre 6 milioni di afroamericani emigrarono dalle zone rurali degli stati del Sud verso le città del Nord per sfuggire al razzismo e alla precarietà economica dell’apartheid delle leggi Jim Crow (leggi dei singoli Stati meridionali degli Stati Uniti emanate principalmente dal Partito Democratico tra il 1876 e il 1965 per creare e mantenere la segregazione razziale in tutti i servizi pubblici, Ndr). Le opere degli artisti Martin Puryear, Hale Woodruff e Horace Pippin esposte in mostra affrontano questo momento storico, soffermandosi anche sugli aspetti più duri. «Sunday Promenade» (1939), una linoleumgrafia di Woodruff, ritrae una coppia di afroamericani ben vestiti che passeggia verso la chiesa, ma l’atmosfera è cupa e carica di tensione. «Giddap» (1935) invece mostra un uomo con un cappio intorno al collo sul retro di una carrozza di cavalli, un momento prima della sua morte. I linciaggi erano frequenti durante queste migrazioni e la scultura di Puryear, «Rest» (2009-10), che rappresenta una carrozza di bronzo rovesciata all’indietro, appare come un monumento alla memoria di chi nel tragitto ci ha rimesso la vita. I dipinti di Pippin, «Cabin in the Cotton» (1931) o «School Studies» (1944), trasmettono invece il calore all’interno di contesti familiari, al riparo dai pericoli esterni.

Il vittimismo comunque non è una caratteristica di Ailey che rivendica con orgoglio le proprie origini dal Sud sporco e assolato: «Sono Alvin Ailey. Sono un uomo nero le cui radici sono nel sole e nella sporcizia del SudLe mie radici sono anche nel Gospel delle chiese del Sud, nelle canzoni sacre e negli inni alla gioia e allo spirito umano. I miei primi balli, che formarono quelle che chiamo le “blood memories”, sono balli che provengono dalla valle rurale del Texas, il blues, il gospel, le ninnenanne, le canzoni che rendevano mia mamma felice a messa». Da queste memorie nacque la sua opera più celebre: «Revelations» (1960). 

«For Bird. With Love, Alvin Ailey Dance Company» (1985) di Leo Jarzomb. Cortesia di Los Angeles Herald Examiner Photo Collection, Los Angeles Public Library Photo Collection

Per tutta la vita Ailey si è interessato alla diversità e varietà delle pratiche spirituali dei neri. Come l’antropologa e coreografa Katherine Dunham, praticante della religione vudù, Ailey si interessò alla candomblé brasiliana, una religione della diaspora africana che combinava le influenze spirituali dell’Africa occidentale con il Cattolicesimo romano. I canti, i movimenti e la grazia caratteristici del candomblé e del vudù rappresentavano un esempio di resistenza, immaginazione e socialità di fronte alla dura oppressione.

«Ho visto lo spirito di resistenza, una fonte d’orgoglio e creatività e un profondo senso di umanità nelle persone e nei luoghi in cui sono cresciuto». Al centro della sala spicca la scultura di David Hammons «Untitled» (1992): un ciuffo di dreadlocks, intrecciati su fili di metallo, spuntano da una base rocciosa. Una testa che alzandosi, sfonda il tetto delle barriere sociali imposte, con la potenza di un geyser. La posizione di fronte al video con i ballerini che piroettano nell’aria ne amplifica il senso di dinamicità e liberazione.

Nel suo lavoro Ailey ha ricercato un’espressione che fosse una caratteristica identitaria della Black American History: «Mi interessava raccontare l’esperienza Black in una forma significativa e bella. Cercavo di creare uno specchio per la nostra società così che potessero vedere quanto eravamo belli, specialmente le persone nere. La chiave sta nell’amare, nel donare, trasmettere un sentimento alle altre persone e al proprio pubblico. Uno dei miei obiettivi è stato non solo far emergere i neri d’America, ma anche mostrare al resto del mondo che anche noi eravamo dei bellissimi fiori del XX secolo e capaci di esprimerlo».

Le difficoltà di Alvin Ailey non derivavano solo dal suo essere afroamericano ma anche omosessuale. Durante la Guerra Fredda, il Dipartimento di Stato americano sponsorizzò il tour internazionale della sua compagnia (1962-67), limitando però le esibizioni negli Stati Uniti. Ailey contestò la classificazione della sua compagnia come «etnica» anziché «di danza moderna», e venne sorvegliato dall’Fbi, che descrisse la sua omosessualità come «laida e di tendenze criminali».

Infine, un aspetto importante ma spesso trascurato. Il sentimento di Ailey sulla coreografia si manifesta anche nella sua formazione da autodidatta. Durante la prima metà del XX secolo, c’erano poche scuole di danza e mezzi per ottenere certificazioni formali, specialmente per i ballerini neri. Queste condizioni non erano esclusive al mondo della danza, ma le storie di artisti autodidatti e la loro presenza nella mostra come Horace Pippin, Lonnie Holley, offre una cornice per considerare il loro approccio singolare a un’autodeterminazione creativa.

Chiude la mostra la video installazione «Momentum» (2011) dell’artista Lorna Simpson. Riprendendo una fotografia scattatale durante una performance al Lincoln Centre quando era bambina, l’artista ricorda la sensazione di disagio nell’esser guardata e fotografata. In questo video, la memoria di quella performance viene rivisitata in modo più problematico: il video, di quasi sette minuti, mostra i ballerini in vesti dorate mentre sono in attesa, poi piroettano e si fermano, creando un’atmosfera allo stesso tempo banale e artificiale, simile a un musical di Hollywood. L’attenzione è rivolta ai gesti e ai volti dei ballerini, evidenziando la meccanicità della performance, con una coreografia volutamente non drammatica che riflette l’iniziale delusione dell’artista, lasciando lo spettatore senza una vera rivelazione finale.

Veduta della mostra «Edges of Ailey» al Whitney Museum of American Art di New York

Luciana Fabbri, 15 ottobre 2024 | © Riproduzione riservata

Alvin Ailey al Whitney Museum | Luciana Fabbri

Alvin Ailey al Whitney Museum | Luciana Fabbri