Sono passati quasi tre mesi dall’inaugurazione di «Due qui / To Hear», il progetto espositivo che ruota attorno a un’installazione di Massimo Bartolini (Cecina, 1962) per il Padiglione Italia alla 60. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia (fino al 24 novembre), promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura e a cura di Luca Cerizza con l’assistenza di Francesca Verga. Un progetto ambizioso e corale, all’interno del quale l’artista è stato affiancato dai musicisti Caterina Barbieri, Gavin Bryars e Kali Malone per realizzare un itinerario tripartito tra iconografie buddhiste, organi, immaginari giardini all’italiana costruiti con tubi Innocenti che diventano strumenti musicali, fontane che ospitano un’onda conica e veri giardini dove sono gli stessi alberi a risuonare. Un universo altro, che abbiamo voluto affrontare insieme all’artista.
Vorrei iniziare questa conversazione partendo dal progetto, dal processo e dagli strumenti che l’hanno portata a trasformare un luogo come le Tese e il Giardino delle Vergini, a cambiarne la percezione.
Quando abbiamo saputo di essere stati selezionati, il mio primo pensiero è stato di portare cose che conoscevo bene. Quindi ho ripreso ricerche che porto avanti da tanto tempo; in particolare, fresco della mostra «Hagoromo» al Centro Pecci di Prato, ho pensato all’organo, strumento che è apparso per la prima volta nel mio lavoro quindici anni fa. Il secondo pensiero invece è stato: non voglio aggiungere niente di costruito a questo spazio, anzi vorrei togliere il più possibile.
Siamo partiti dalla stanza centrale per raccontare il lavoro nelle sue linee di massima.
Il padiglione è composto da tre spazi paralleli, due interni e uno esterno, i quali sono come appoggiati su una mensola uno accanto all’altro. È questo che mi ha fatto pensare allo spazio centrale come una cerniera tra interno ed esterno, a un giardino all’italiana appunto, il cui suono si sposta dai due margini dello spazio verso il centro. Il primo margine, al quale si accede entrando alle Tese e dove si incontra un suono dell’interno «interno», è il drone in la bemolle che si scompone in mille armonici, mentre l’altro margine, quello del Giardino delle Vergini, è dell’esterno «esterno», dove all’inverso del drone, la musica e la molteplicità dei rumori si compongono in un unico suono.
Trovo molto interessante il fatto che ci siano dei fili che legano queste opere alla sua ricerca precedente, con una serie di sottili variazioni e ricorrenze.
Per me la pratica della variazione è una modalità di lavoro. Una modalità che parte dagli arbori dell’attività umana e che di fatto non ha mai smesso di esistere. Il padiglione è uno strumento musicale dove la musica e il suono sono un riferimento operativo e la ripetizione, le variazioni e le «interpretazioni» in musica sono parte cruciale della pratica stessa. Ho iniziato il lavoro sugli organi dal 2007-08 mettendo insieme due oggetti che non erano mai stati messi insieme prima, o almeno credo, come il ponteggio e l’organo, ma il collegamento tra edilizia e musica è presente da molto più tempo. Oltre il dato biografico, Schelling nella Philosophie der Kunst definiva l’architettura come «erstarrte Musik», «musica solidificata». Dal 2008 ad oggi ho realizzato quattro di questi organi, i quali ogni volta che sono stati esposti, mantenendo il «core» suonante hanno sempre cambiato forma per adattarsi allo spazio e al contesto. Variazione come adattamento, e impermanenza, così come nella musica, sono insiti nella tecnica di costruzione del ponteggio giunto tubo, della quale pure il nome mi commuove, Innocenti. Così come il suono permea ogni spazio reagendo ai diversi materiali presenti ed alle diverse incidenze delle superfici riflettenti, il ponteggio giunto tubo può salire modellandosi con precisione, seguendo le varie irregolarità dello spazio. Si può salire su un ponteggio, si può salire su di un suono.
Nella sua pratica ripetizione e variazione sono ricorrenti.
In generale tutto ciò che è vita progredisce ricopiando, ripetendo, errando nel ricopiare, ripetendo l’errore fino a che l’errore non si integra e diventa «novità». Questi lavori non possono assolutamente essere percepiti in fotografia e poco anche in video, per essere visti devono essere rifatti e questo rifare provoca mutazioni nel lavoro stesso.
Il tempo e la sua percezione sono un altro elemento fondamentale di questo padiglione.
Nei miei lavori faccio sempre attenzione che ci sia una linea ininterrotta di pensiero che aggiri la convenzione della cronologia verso un tempo ciclico, sensibilità di opere del 1990 si ritrovano in opere del 2022… La novità come irruzione in una linea di sviluppo è semplicemente un’operazione di marketing, che è purtroppo diventato un modo di pensare. Preferisco la cadenza, lo sfumarsi del giorno nella notte, l’apparire lento delle cose. La «catarsifilia» è di fatto una patologia che colpisce soprattutto coloro, me incluso, che hanno bisogno di essere colpiti con un pugno per sentire un dolce tocco. Ancora una volta, la richiesta di attenzione, e di conseguenza di giustizia, sembra la cosa più necessaria che un lavoro d’arte possa fare.
Gli spazi del Padiglione Italia prevedono anche tanti vuoti, di contrappunto ai pieni. Quanto ha voluto lasciare alle possibilità immaginative di chi lo visita?
Il vuoto è il momento della meraviglia, il momento in cui può succedere di tutto. A me piace un progetto con parti vuote, come una linea che poi possa essere stirata e deformata. Un luogo in cui ognuno possa provare a essere quello che è con meno coercizioni. Anche il cessare voluto delle varie musiche nello spazio vuole far emergere il vuoto che sottende alla musica.
Pensando alla pratica collaborativa che ha portato al Padiglione Italia, come tiene insieme una sua visione così lucida rispetto alle altre autorialità, lasciando al tempo stesso a loro lo spazio per un apporto così significativo?
È un concetto che trovo più facile esprimere attraverso la musica jazz. Il quartetto standard, ad esempio, era sempre pervaso da nuovi arrivi tra i musicisti, poi c’è l’idea della jam session dove tutti suonavano insieme improvvisando…
Questo comporta anche dei rischi.
Vero. Possono esserci cose che al momento non capisci se funzioneranno o no, poi ovviamente si discute molto. Ad esempio, quando ho invitato Gavin Bryars a comporre quello che diventerà un coro per tre voci, campane e vibrafono per il Giardino delle Vergini, gli parlavo di come in quel periodo stessi ascoltando «Three Viennese dancers», un suo lavoro con cui al momento sentivo una particolare affinità. Allo stesso modo Kali Malone e Caterina Barbieri sono venute in studio, hanno lavorato anche con e sullo strumento. In generale c’è stata libertà, dialettica e attenzione e quindi comprensione.
Anche il curatore immagino abbia avuto un ruolo fondamentale all’interno di queste dinamiche.
Dovrebbe chiederlo a Luca Cerizza, ma provo a rispondere in sua vece! Cerizza è un curatore che entra nel merito del lavoro perché ha tutti gli strumenti per poterlo fare, e il confronto è stato totale. Lavoriamo insieme dagli anni Novanta e, avendo anch’io curato delle mostre, penso di avere strumenti per discutere entrando nel suo ambito di competenza.
Avete organizzato anche un public program molto articolato.
Estende e presenta tutto quello che sta dietro al lavoro. E molto di più. Introduce anche altri elementi, come performance di artisti differenti… È come un’orchestra che si forma intorno al Padiglione intonandosi, riferendosi, sovrapponendosi al Padiglione stesso.
Quanto ha pensato al contesto della Biennale di Venezia, al fatto di dover rappresentare una nazione?
Me lo sono chiesto all’inizio, in particolare rappresentare l’Italia è una grossa responsabilità e purtroppo una tremenda semplificazione. Era una cosa che mi sembrava quasi troppo grande. Ho pensato che l’Italia non è solo donne e uomini italiani, ma è anche la pietra, i monti, il mare dell’Italia. Magari è solo un gioco linguistico, ma pensare a tutto ciò che non è umano è stato un riferimento e un sollievo.
Questo ci riporta allo spazio del Padiglione, che diventa luogo di esperienza individuale.
Sì, un posto dove uno si sente come sacro... Ma vorrei davvero che il mondo laico si riappropriasse del proprio spirito, e che questo succedesse ovunque, che si riprendessero parole come fede, grazia, sacro. Vorrei che queste parole tornassero nel linguaggio di tutti i giorni. In certi spazi l’aria diventa più sottile, il corpo meno materico, si respira meglio quando nell’aria c’è un suono.