Dal 14 dicembre al 4 maggio 2025 la Galleria d’Arte Contemporanea Osvaldo Licini di Ascoli Piceno ospita «Ma sedendo e mirando. L’intruso», una mostra di Luca Bertolo (Milano, 1968), vincitore della quarta edizione del Premio Osvaldo Licini by Fainplast, a cura di Alessandro Zechini.
Mentre preparo questa intervista sto leggendo «Ucronia» di Emanuel Carrère... «Che cosa sarebbe successo se?»… Che cosa avrebbe fatto con una laurea in Scienze dell’informazione? Con una tesi in logica matematica? Questo è un dato che in interviste, short bio, presentazioni, il più delle volte è presente, ma il suo permanere non credo che dipenda solo dal desiderio di mantenere un dato che rende esotico l’artista raccontato…
Un giorno chiesero a Raymond Queneau che cosa restasse della sua esperienza con i surrealisti. «Più che altro, l’illusione di essere stato giovane», rispose. E poi sì, c’è un po’ di esotismo, un concetto quanto mai relativo: un artista appare tendenzialmente esotico in ambiente scientifico come uno scienziato in ambiente artistico. Il mio sogno sarebbe di riuscire a muovermi con grazia in entrambi i contesti.
Il Premio prevede una residenza di produzione. Immaginarne una, in un periodo così breve (il vincitore è stato annunciato a metà settembre, la mostra si apre il 14 dicembre), coinvolgendo un pittore, è cosa un po’ difficile perché penso che il suo procedere sia lento, fatto di ampie pause, di riconsiderazioni e di abbandoni. Dunque, o si tratta di lunghi periodi di «stanzialità» oppure queste situazioni mi fanno pensare più a una recita. Come ha gestito la richiesta di interpretare sé stesso?
È vero, spesso le cosiddette residenze d’artista sono un po’ delle recite. Nella maggior parte dei casi viene fatto un bando e l’artista partecipa con un progetto. Per anni mi sono chiesto, io che, come moltissimi pittori, ho un lavoro incentrato sulla «pratica quotidiana della pittura», un processo creativo poco discorsivo e molto legato alle intemperanze del fare, che cosa potessi scrivere nelle application. E infatti in genere non le scrivevo. Fondamentalmente ci sono due alternative: esprimere dei desiderata, onesti ma così lapalissiani da risultare offensivi, tipo «mi piacerebbe dipingere dei bei quadri», oppure mentire spudoratamente. La seconda alternativa in genere funziona meglio. Nel caso del Premio Licini non ho dovuto optare per nessuna delle due alternative, perché non c’era un bando, sono stato semplicemente invitato a trascorrere del tempo, se e quanto avessi voluto, in un piacevole appartamento-studio nel centro di Ascoli. Avevo carta bianca, che per un artista visivo mi pare una felice metafora.
Che cosa pensa dei contesti di promozione artistica come questo: defilati, piccoli e poco noti? Come si è trovato e che ruolo pensa che possano avere in questo momento storico?
La seconda parte della sua domanda è troppo complicata. Quanto alla prima, finora ho avuto un rapporto eccellente con Andrea Valentini e Alessandro Zechini, che gestiscono il Premio in rappresentanza dell’associazione Arte Contemporanea Picena. Hanno le caratteristiche che vorremmo ritrovare in tutte le persone che si occupano d’arte: colti, appassionati, con pochi cliché in testa riguardo a quello che dovrebbe fare un artista contemporaneo. Andrea un piglio più pratico (necessario), Alessandro più teorico (necessario). Mi ha colpito la loro vera e propria fissazione sulla messa a punti di meccanismi efficaci e trasparenti per selezionare la giuria che a sua volta selezionerà il vincitore del premio. Non so se queste caratteristiche c’entrino o meno con la provincia, ma l’Italia è in gran parte provincia, che può essere un importante elemento di resilienza alla becera globalizzazione culturale. Basta dimostrare a sé stessi che una cosa organizzata in provincia non significa necessariamente provinciale.
In una breve clip online, lei accenna ad alcuni dipinti che ha realizzato per la mostra e che si riferiscono a «Ritratto della moglie» (1926) di Osvaldo Licini, in cui «vede» il blocco della figura ritratta come se fosse una montagna, il Mont Sainte-Victoire di Cézanne. Licini è un «importante artista minore», parafrasandola: che cosa ha da dirle, che cosa le ha detto e che cosa le ha lasciato?
Le prime volte che ho visto dal vivo i dipinti di Licini (all’epoca in cui studiavo in accademia) mi parvero noiosi. Anzi afosi, come quasi tutta l’arte italiana degli anni Cinquanta. Ma intravvidi qualcosa negli angeli ribelli, non tanto la loro stramba figurazione, che ora al contrario mi colpisce molto, quanto la sensibilità tutta informale della texture pittorica. Qualità che ho ritrovato nel «Ritratto di Nanny», realizzato venticinque anni prima degli angeli. In generale Licini è sempre stato fuori dal mio radar e ammetto che questo premio è stato una preziosa occasione per conoscere più approfonditamente un artista italiano decisamente di prima categoria. Tra l’altro, all’improvviso ho capito da dove spuntava Enzo Cucchi…
Nel 2001 scriveva: «Provate a defilarvi, come artisti, a rinunciare a un po’ di cose e di mondanità pur di avere più tempo e concentrazione per le vostre cose; cercherete di farlo in silenzio, di nascosto, ma niente: vi scoveranno per comunicarvi che siete inutili, romantici e fessi». Licini scelse di tornare a Monte Vidon Corrado, lei abita a Fabbiano. Inutili, romantici e fessi? O alle prese con una ricerca interiore come le tre figure del video «Methallomai» che è in mostra…
Romantici, forse. Ma un romanticismo che prevede venti minuti di automobile per trovare il primo negozio, due ore per arrivare alla prima vera città, la motocarriola per portare dal parcheggio a casa un sacco di cemento o un armadio. In altre parole, non il romanticismo del sentimentale, cioè di colui, secondo la geniale definizione di Oscar Wilde, che si vuole godere il lusso di un’emozione senza pagarne il prezzo.