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Anaël Pigeat
Leggi i suoi articoliNata nel 1978 a Parigi, alla Biennale di Venezia del 2013 Camille Henrot è stata premiata con il Leone d’argento come artista più promettente tra i partecipanti alla mostra centrale, «Il Palazzo Enciclopedico», curata da Massimiliano Gioni. La giuria ci aveva visto giusto, considerato il prosieguo della sua carriera. Sino al 12 aprile è da Hauser & Wirth a New York, la città dove si è da tempo stabilita.
Da dove viene il titolo della sua mostra da Hauser & Wirth, «A Number of Things»?
Per la serie di dipinti «Dos and Don’ts» (2024), dato che questa serie si basa sui libri di galateo, i titoli sono venuti da estratti delle pagine di quei volumi: «Don’t Spread Your Elbows», «All The Bridesmaids a Present»... Per le sculture, il titolo corrisponde al numero totale di perle sull’abaco (serie «Abacus», 2024). Soffro di discalculia, una dislessia numerica, quindi ogni numero è sempre considerato in coppia, con il suo inverso. La mostra evoca il modo in cui l’istruzione è progettata per le persone con un pensiero lineare, la maggior parte di noi, dominata dalla parte sinistra del cervello, ma inadatta a un altro tipo, quello delle persone dominate dal cervello destro, con un pensiero «ad albero». Si parla di pensiero controfattuale quando è necessario esplorare tutte le possibilità prima di accettare un fatto. Ad esempio, il fatto che si sia soggetti alla gravità non significa che non si possa volare. Il numero 4 è solo uno dei possibili risultati di 2 + 2; il risultato potrebbe anche essere 22. Man mano che impariamo, il nostro senso delle possibilità si restringe.
C’è un legame tra il pensiero controfattuale, quello dell’artista e l’amore?
Considero la pratica artistica come un muscolo che devo allenare ogni giorno per resistere alla pressione normativa, che è la forza opposta alla creazione. Le sculture di questa mostra sfidano la gravità nella loro forma: il grande «Abacus» è fatto di acciaio e bronzo, due materiali che normalmente non vanno d’accordo, e come quasi tutte le mie sculture ha un centro di gravità spostato. Il pensiero controfattuale è fondamentalmente legato alla speranza, all’ottimismo e all’utopia; il suo mantra è «tutto è possibile», come l’amore che tenta tutto, spera in tutto.
Nella mostra si vedono anche sculture di cani-gatto e (a volte) cani veri.
I cani mi interessano da tempo, sia in senso personale (ho sempre vissuto con i cani) sia in senso antropologico, perché hanno uno status intermedio tra l’umano e l’animale grazie alla loro antica familiarità con l’uomo. Il cane è uno «strumento» che evoca la classe sociale e la tenerezza, ma anche il dominio, la dipendenza, la disciplina e la sorveglianza. «Sweet Days of Discipline», il titolo della mia mostra del 2023 in Svizzera, al Kunstmuseum di San Gallo, è stato ispirato dal libro di Fleur Jaeggy I beati anni del castigo (Adelphi, 1989), che parla di collegi e dell’ambivalenza dell’isolamento e dell’educazione. C’è una normalizzazione e una perdita di creatività che sono necessarie per vivere insieme. Questo è ciò che mostrano le pagine dei libri di galateo, di savoir vivre. Non sto giudicando il galateo o l’educazione. I cani e le buone maniere sono un luogo comune, apparentemente innocuo e divertente. La gentilezza è un modo attenuato di parlare di educazione, ma anche di politica e di polizia (parole che hanno la stessa radice, come sottolinea l’antropologo David Graeber). I cani sono un modo per parlare di dipendenza e addomesticamento, con il cursore posto più dalla parte della tenerezza o della disciplina. I codici della società sono spesso considerati stabili, mentre sono fatti di sabbia e cambiano spesso. Forse è per questo che le mie sculture sembrano essere mosse dal vento: quella che sembra una pianta in crescita [«1263/3612 (Abacus)»] ricorda una bandiera medievale svolazzante; quella che evoca un segno infinito [«37/73 (Abacus)»] si contorce come una duna; l’ultima [«347/743 (Abacus)»] è spazzata via dal centro come una canna da una folata di vento. Per rendere evidente il movimento, era necessaria la rigidità della griglia sul pavimento della galleria. E l’occhio identifica gli elementi al di fuori della griglia, che si potrebbe dire siano «in fuga».
Questo ci porta alla pittura e alla storia del Rinascimento, molto presente nel suo lavoro.
Alexis Lowry ricorda che spesso si dice che la pittura è una finestra sul mondo o sull’anima; ma oggi le nostre finestre sono diventate schermi. Nei miei dipinti è la stessa cosa: le finestre dei nostri computer danno l’impressione di essere nello spazio, ma non lo sono. C’è solo uno spazio sottilissimo, con una piccola ombra, tra la finestra e lo schermo. Nella stampa (mia madre era una tipografa) ricorda lo spazio che una matrice cava crea nella carta, che per me è molto eccitante. Da qui il lavoro che produco: crepe, pennellate incassate, l’accartocciamento della carta, la consistenza della vernice che esce dal tubo come un sottile rivolo... Paige K. Bradley, un giovane critico d’arte, ha definito queste opere «espressionismo meticoloso». I miei dipinti sono dichiarazioni d’amore ai libri stampati: alcuni di essi sono composti da due pagine aperte speculari.
Nei suoi dipinti si parla molto degli effetti della tecnologia sulle nostre vite.
Viviamo in un’epoca in cui la tecnologia è onnipresente, ma non ne comprendiamo il funzionamento. I miei dipinti sollevano la questione dei limiti dell’intimità nel mondo virtuale. La tecnologia è opaca, ma le nostre vite sono diventate trasparenti grazie alla dipendenza dai social network e dai motori di ricerca, fino alla memorizzazione e all’archiviazione dei nostri dati personali e biologici (risultati del sangue, radiografie ecc.). In fin dei conti, la mia storia su Google è anche un po’ come la storia dei miei pensieri. Non condividere i propri pensieri richiede una grande pianificazione.
La nostra mente è forse l’ultimo rifugio dell’opacità di fronte alla trasparenza prodotta dai social network. I suoi quadri dicono questo?
Sì! Due dipinti della mostra sono molto emblematici a questo proposito. Uno di essi, «Dos and Don’ts - It Was Usual to Leave a Card», è una sovrapposizione della scansione dei miei denti e delle immagini della pittura essiccata in studio (quando mi sono rotta il braccio), il tutto tagliato a strisce, come una veneziana o come i passaggi per caricare un’immagine su uno schermo. Questi dipinti sono come cipolle, con strati di stampe, pittura, acquarello, pastello e carta... La pittura è fatta per rimozione quasi più che per aggiunta.
Queste opere stanno per diventare il suo prossimo film?
Questi dipinti, che combinano diverse immagini quasi in movimento, sono un po’ dei frame di un film che verrà, «In the Veins», che ho iniziato a girare nel 2021 e che credo di aver finalmente deciso di finire. Come nelle mie sculture, ha un legame con le piante, il mondo animale e l’infanzia. Il mondo animale è molto presente nell’infanzia, nelle storie, negli oggetti e nei riferimenti quando iniziamo a leggere. Tuttavia, i bambini di città non vivono circondati da animali e l’estinzione delle specie naturali avviene allo stesso ritmo della loro crescita. In altre parole, a un ritmo che per noi è troppo lento per identificare una catastrofe, perché per noi una catastrofe è sempre improvvisa, avviene nello spazio di un secondo, e allo stesso tempo è troppo veloce per poterla affrontare. Eppure, la seduzione e la tenerezza per il mondo animale sono ovunque, hanno origine nell’infanzia e sono ovunque nel mondo digitale. Che cosa manca per comunicare e agire per proteggere le specie del mondo animale? Il linguaggio? L’esperienza? L’empatia? Sono queste le domande che mi pongo. Come possiamo usare la seduzione del mondo animale in modo sano?