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Rica Cerbarano
Leggi i suoi articoliChristoph Wiesner, in passato direttore di Paris Photo, è arrivato alla guida di Les Rencontres d’Arles nel settembre del 2020. Alla vigilia della sua quinta direzione del festival più longevo e prestigioso del mondo, in programma dal 7 luglio al 5 ottobre, ci racconta la sua visione e l’esperienza che ha maturato nel tempo.
L’edizione dell’anno scorso ha battuto ogni record di presenze, con 160mila visitatori, il numero più alto mai registrato. Che cos’ha contribuito a questo successo, a suo parere? Quali sono stati gli ingredienti chiave?
Penso che il successo risieda nella varietà della programmazione: un equilibrio tra retrospettive storiche, grandi figure della fotografia e artisti emergenti, affrontando allo stesso tempo questioni sociopolitiche attuali, che per me sono uno stimolo molto importante nella definizione del tema di ogni edizione. C’è da dire che anche Arles stessa è diventata più attrattiva, in particolare grazie a istituzioni come Luma Arles (inaugurata nel 2021) e la fondazione Lee Ufan Arles (inaugurata nel 2022). Inoltre, dall’anno scorso il Festival Off ha fatto il suo grande ritorno. Non possiamo isolare il nostro successo dall’ampio ecosistema in cui si colloca il festival: è tutto interconnesso.
Oltre ai numeri di affluenza, come misurate il vostro successo? Ci sono altri indicatori chiave?
Un fattore molto importante è il coinvolgimento locale. L’anno scorso, circa 10mila abitanti di Arles hanno visitato le mostre. È un numero significativo, considerando che la città ha circa 35mila abitanti (50mila se si include l’area metropolitana). Un altro grande successo è il lavoro che facciamo con il pubblico giovane. A settembre abbiamo accolto circa 11mila studenti che hanno visitato le mostre con i loro insegnanti.
Il nostro è un impegno di lunga data verso l’educazione visiva. Da oltre dieci anni il festival propone un intero programma educativo con cui aiuta le giovani generazioni a decodificare e comprendere la fotografia. Insegnare loro a leggere criticamente le immagini è essenziale, specialmente in un’epoca in cui ne consumano così tante tramite i social media.
Questo si collega chiaramente alla sua sensibilità verso le questioni sociali. D’altronde, il modo in cui leggiamo le immagini riflette il modo in cui leggiamo la società.
Esattamente. E la cosa bella è che oggi incontriamo adulti che hanno partecipato a questo programma da bambini. È una soddisfazione straordinaria.

Brandon Gercara, «Joseph 83» dalla serie «Conversations», 2019. Courtesy of the artist
Parliamo del tema di quest’anno: «Images indociles». È un titolo potente. Da che cosa è stato ispirato? Quali sono le sfide che affronta questa edizione?
La fotografia è un mezzo resistente. Anche se cerchi di cancellarla, riappare in luoghi inaspettati. Ad esempio, negli Stati Uniti, durante i primi mesi dell’amministrazione Trump, c’è stato un tentativo di cancellare alcuni archivi fotografici, in particolare quelli del Pentagono, dove si trovavano immagini che testimoniano la politica di inclusività all’interno dell’esercito, raffiguranti la comunità afroamericana, le donne o le minoranze. Ma anche immagini storiche, come quella del bombardiere Enola Gay che sganciò la bomba atomica su Hiroshima. Le università hanno lavorato per salvaguardarle, creando dei backup, ma il solo fatto che qualcuno voglia cancellare queste immagini dimostra quanto siano potenti. E disobbedienti. Sfuggono al controllo. Il tema di quest’anno riflette su tutto questo. Ci siamo concentrati su comunità storicamente prive di voce. Il capitolo «Contre-Voix», ad esempio, mette in luce coloro che oggi trovano finalmente uno spazio per esprimersi. Sono spesso storie scomode, ma necessarie. Ed è proprio questo il potere, e il ruolo, della fotografia: offrire nuove narrazioni e mettere in discussione le norme.
Quest’anno le pratiche sperimentali, in particolare le immagini generate con l’IA, sembrano meno presenti. È una scelta deliberata?
Anche se non abbiamo una mostra personale interamente dedicata, l’IA è comunque presente in alcune collettive. Per esempio, nella mostra «Futurs ancestraux», dedicata alla scena fotografica brasiliana nell’ambito della Stagione Brasile-Francia 2025 (iniziativa culturale che prevede l’organizzazione di progetti realizzati tra istituzioni francesi e brasiliane per rafforzare i legami tra i due Paesi, Ndr). L’artista Mayara Ferrão utilizza l’IA per generare immagini della comunità Lgbtqi+ del suo Paese, una storia praticamente assente dagli archivi visivi. In quel contesto, l’IA diventa uno strumento politico, colmando vuoti della memoria visiva. Al momento, non sentiamo l’esigenza di dedicare all’IA una mostra intera, ma osserviamo con attenzione come si integra nelle pratiche artistiche.
Che cosa secondo lei contraddistingue Les Rencontres d’Arles?
Il festival ha più di cinquant’anni ed è parte di una vasta rete di istituzioni fotografiche, non solo europee. La collaborazione è al centro del nostro approccio. Siamo un evento importante, ma la nostra forza sta nella cooperazione con altre realtà, come musei o figure curatoriali. Questo spirito collaborativo porta a mostre più solide, più strutturate. Come ha detto un collega l’anno scorso, oggi si sente davvero l’influenza dei curatori che coinvolgiamo per le diverse mostre, perché spesso grazie al loro contributo viene raggiunto un livello museale, molto dettagliato. Penso che il festival sia come una cassa di risonanza ricettiva nei confronti del nostro mondo, delle nostre preoccupazioni sociali, politiche, storiche e artistiche.
Da quando ha assunto la direzione, come si è evoluta la sua visione del festival?
Ho approfondito l’impegno verso un approccio più comunitario e collaborativo, non solo a livello personale, ma con tutto il team. Venendo da Paris Photo, ho sempre pensato fosse fondamentale offrire al pubblico la possibilità di vedere qualcosa di nuovo e inaspettato. Questo resta un elemento centrale della mia visione. Pongo inoltre molta enfasi sull’equilibrio tra prospettive maschili e femminili, tra voci mainstream e minoritarie. Mi viene spesso chiesto quale sia il ruolo della scena fotografica francese nel festival. La mia risposta è sempre la stessa: mi interessa vedere come la Francia interagisce con le altre realtà internazionali, che si stimolano e si arricchiscono a vicenda. Un’altra cosa fondamentale è mantenere uno sguardo attento sulle tendenze emergenti. Lo facciamo soprattutto grazie al Prix Découverte Fondation Louis Roederer, allestito presso lo spazio Monoprix. Fin dal mio arrivo, mi è sembrato importante che la selezione fosse effettuata da una sola voce curatoriale, ogni anno diversa. Abbiamo avuto curatori dalla Francia, dall’India, dall’Inghilterra, dal Regno Unito e quest’anno dal Messico. Ognuna di queste figure ha offerto nuove prospettive, una nuova lettura della produzione emergente con un focus su diverse regioni del mondo che aprono naturalmente a nuove problematiche. Può sembrare esagerato, ma quando affermiamo che il festival è un evento globale e di grande richiamo, intendiamo fare il punto sulla creazione contemporanea e sui suoi temi, senza dimenticare le mostre «storiche» che contribuiscono anch’esse all’attrattiva della manifestazione. La speranza è che, visitando il festival per una mostra specifica, il pubblico ne attraversi un’altra, scopra magari un artista emergente dall’Australia, dal Brasile o da altri Paesi, e si soffermi su qualcosa di diverso. Il nostro obiettivo è offrire l’opportunità di fare nuove scoperte. E questo è ancora più importante oggi, quando c’è chi vuole censurare le immagini e cancellare la nostra libertà di vedere ciò che vogliamo.

Caroline Monnet, «Alanis, Ikwewak (Women)», serie, 2022. Courtesy of the artist