In occasione della prima retrospettiva dedicata a Giovanni Chiaramonte (1948-2023) fino al 9 febbraio all’APE Parma Museo, centro culturale ed espositivo della Fondazione Monteparma, il curatore dell’esposizione e noto storico dell’arte Arturo Carlo Quintavalle ci racconta il percorso e l’opera del fotografo da lui ritenuto insieme a Luigi Ghirri e Ugo Mulas tra i più importanti in Italia e in Europa negli ultimi 60 anni.
Com’è nata la mostra?
Eravamo molto amici, dagli anni ’70 al 2013 ha donato almeno 700 fotografie alla raccolta dello CSAC (Centro Studio e Archivi della Comunicazione) di Parma. Ho organizzato la mostra con Paolo Barbaro, esperto di storia della fotografia, studioso delle collezioni conservate allo CSAC. La mostra è organizzata in ordine cronologico con nelle diverse sale, le oltre 400 fotografie che la compongono documentano le sue singole ricerche, accompagnate da un breve cartello esplicativo. Decine di migliaia di scatti ancora sconosciuti di Chiaramonte sono oggi conservate nell’archivio del fotografo a Milano.
Chi era Giovanni Chiaramonte?
Chiaramonte era un giovane regista di film al tempo dell’occupazione studentesca degli anni ’70. Un appassionato lettore di Ezra Pound e di Josif Alexandrovich Brodskij, uno studioso di Andrej Tarkovskij e della sua produzione filmica e narrativa. Un critico e storico della fotografia, un appassionato docente che ha tenuto corsi di fotografia presso la nostra università dopo Migliori e Ghirri.
Quale é stato il rapporto di Chiaramonte con Mulas e Ghirri?
Con Mulas condivideva la volontà di analizzare il linguaggio della fotografia, i suoi strumenti, la sua storia, con Ghirri invece, suo amico da metà degli anni ’70, fino alla prematura scomparsa del 1992, la scelta di un diverso linguaggio e della funzione del fotografo. Ghirri e Chiaramonte e un gruppo di importanti fotografi, iniziano un nuovo modo di fotografare il paesaggio che esclude la tradizionale immagine dei monumenti e sceglie i margini, le periferie urbane, il non paesaggio della rivoluzione industriale che nelle periferie concentra gli esclusi. Mentre Ghirri, dopo una prima esperienza concettuale, stabilisce un raffinato dialogo con la pittura metafisica e surrealista. Nel film, con «L’ecole du regard», Chiaramonte muove prima da un’approfondita esperienza della fonte neorealista per poi approdare a una riflessione concettuale sul linguaggio fotografico. Le storie di Giovanni Chiaramonte e di Luigi Ghirri sono storie parallele e ambedue rivolte alla trasformazione della fotografia europea.
Ci racconta l’evento che Chiaramonte organizzò a Rimini nel 1983?
Chiaramonte organizzò al Meeting dell'amicizia fra i popoli di Rimini nel 1983 una grande rassegna della giovane fotografia europea, nella quale invita a esporre oltre a Ghirri una decina di altri giovani fotografi. La mostra precede e prefigura la rassegna «Viaggio in Italia» dell’anno successivo. Chiaramonte salverà la collana di fotografia punto e virgola fondata a Modena insieme a Ghirri, la porterà a Milano dove pubblicherà a Milano gli scritti di Ghirri dopo la sua scomparsa.
Come interpreta il mondo Giovanni Chiaramonte?
All’inizio in bianco e nero, realizza un documento importante sulla Sicilia, ripreso con i negativi in 24x36 che evocano Cartier Bresson e Ferdinando Scianna. Documentano la Sicilia, lui è di origine siciliana, l’idea del viaggio, una famiglia di origine siciliana migrata a Milano, il ritorno alle radici. La sperimentazione nel bianco e nero prosegue con i negativi 6x6, con i «Giardini di Sicilia»: 21 fotografie stampate in 3 mesi, fino a raggiungere la densità dei neri voluti, dei neri incredibili (esposti in mostra). Dopo l’esperienza realista giunge alla ricerca concettuale: i tempi dentro la fotografia, il confronto fra le immagini dei media che assediano i luoghi del reale e quelli della lunga durata. Chiaramonte propone anche un’altra idea del viaggio che attraversa la sua storia di fotografo: il viaggio della civiltà d’Occidente in Grecia, a Roma e fino negli Stati Uniti e nell’America del Sud. Un viaggio percorso seguendo le orme della colonna romana, a volte con capitello, altre isolata come rovina, altre immutata e ripresa dal Rinascimento al Neoclassicismo, da Schinkel a Albert Speer, architetto di Hitler le cui opere Chiaramonte fotografa a Berlino. Fotografa anche la Germania dell’est, le sue rovine.
La geometria come ordine del mondo.
Dopo il periodo delle foto in bianco e nero passa alle foto a colori usando formati medi con i quali, munito di cavalletto, analizza il mondo, sempre partendo da una prospettiva centrale, da un’idea di ordine e di equilibrio. Ogni paesaggio, veduta, immagine si confronta con questa struttura.
Come si legge l’uso del colore in Chiaramonte?
Chiaramonte vede nel colore, come nella prospettiva, il simbolo dell’organizzazione del mondo. Il colore per lui ha quasi sempre una lieve tonalità luminosa, il giallo caldo è il segno di una costante che Chiaramonte intende rappresentare: la presenza del divino che sempre il fotografo legge nel mondo. In alcuni casi Chiaramonte coglie questo segno con un raggio di luce, in un taglio di cielo. Una rottura delle ombre che egli rende con raffinata e ricercata sensibilità.
Chiaramonte affronta anche il tema delle tre religioni monoteiste?
Soprattutto del luogo dove si intrecciano le origini di queste religioni: Gerusalemme, dove si trovano il muro del pianto degli ebrei, gli scenari della vita e della morte del Cristo, la moschea venerata dalla religione islamica, la pietra dalla quale Maometto è salito al cielo.
Che rapporto hanno le fotografie di Chiaramonte con le persone?
Chiaramonte coglie la vita e il senso dell’esistenza. Le persone sono quasi sempre in primo piano o piccolissime, nei luoghi più disparati. Altro tema fondamentale gli esclusi, gli emigrati di ogni parte del mondo che il fotografo riprende a Palermo e a Milano mostrando di ognuno gli altari di casa. Gli spazi della memoria. Oggetti, immagini appese, ricordi custoditi all’interno di casa. Chiaramonte ci parla della dignità di questi nuovi cittadini italiani.
Chiaramonte è un grande narratore delle città.
Delle città conosce, studia la storia, che permane a lungo, ne scopre il senso e i luoghi. La sua amata Gela, dove fotografa sempre i resti e le tracce dell’antico, le sabbie e i frammenti di marmo o di pietra. Berlino, dove vive ripetutamente come fotografo e ricercatore e coglie la distruzione del tempo e delle guerre, il riaffiorare della civiltà antica.
E Venezia?
Un enigma, nel 2006 la fotografa attraverso fessure e tagli sui rivestimento dei luoghi in restauro più conosciuti, scoprendo equilibri nuovi in forme diverse. Spazi inusuali, sempre con la traccia delle persone. Vedendo la sala dedicata a Venezia non si capisce che è Venezia.
E Milano?
L’altra città che Chiaramonte affronta con un taglio narrativo nuovo, muove dalle tangenziali verso il centro fotografando gli spazi del presente, ma anche i luoghi della memoria, sempre popolati di persone, come due ragazzi che si baciano in alto fra le ultime Guglie della cattedrale.
Poi fotografa il modenese che lui chiama una non città.
Lo fotografa dopo il terremoto del 2012. La ricerca si intitola «Interno perduto e rimanenza del terremoto». Ho sentito il dovere di riprendere quel disastro nel segno di Ghirri, perché quel paesaggio padano, quegli edifici, quei casolari distrutti erano lo spazio e i luoghi fotografati da Ghirri.
Nel 2018 compie una ricerca sulla polaroid.
È come un testamento. Un libro singolare dove il fotografo unisce grevi componimenti poetici, di aiku, delle fotografie polaroid, piccole meditazioni sull’esistenza. Il volto della Sacra Sindone appoggiato fra i libri accanto a quello di Galileo. Il volto di Chiaramonte appena sfocato, con accanto la riproduzione di un dipinto. Due immagini che sembrano un testamento spirituale.
Negli ultimi anni si è occupato anche dell’America Latina.
È la ricerca che più lo ha appassionato nell’ultimo periodo. È stato in Messico, Cuba, Panama, Tobago alla ricerca della vita quotidiana, delle credenze religiose, della vita dei giovani. Ogni foto è pensata per cogliere le discrepanze fra il mondo scolpito e architettato degli edifici religiosi e laici e le persone. Il naturale è spesso colto come incombente pericolo, un uragano, una tromba d’aria, un lago di asfalto che ricorda la pittura informale che tanto ha interessato Chiaramonte agli inizi.
Qual è la peculiarità di Chiaramonte?
La riflessione sulla bellezza della creazione e insieme sulle contraddizioni fra cieli, monti, acque, luoghi e persone. C’è sempre qualcosa che turba questo equilibrio. Le foto di Chiaramonte vivono di questa sottile contraddizione. Il divino e l’umano a confronto. Chiaramonte è dentro la storia dell’arte contemporanea. Non si potrà pensare alla sua Venezia senza i tagli di Lucio Fontana. Non si potranno pensare le sue foto della sabbia e della terra di Gela, o degli intonaci della città senza ricordare l’Informale.