La Galleria Gracis presenta da giovedì 9 maggio la mostra «Emilio Tadini tra Archeologia e Metafisica», personale dedicata al maestro milanese che dopo aver intrapreso la carriera di scrittore, traduttore e poeta, passò senza soluzione di continuità alla critica d’arte e alla pittura. A quest’ultima approdò negli anni Cinquanta, quando un fondo di cultura condivisa univa dentro la stessa grande sfera artisti, letterati, registi e filosofi. «Tutti con Picasso e Guernica in tasca» era la risposta agli interrogativi sull’arte e sul ruolo dell’artista nella neonata società del dopoguerra.
«Artista totale», colto e profondo, Tadini (Milano, 1927 – 2002) fu fortemente influenzato dalla metafisica, rinvenibile nel senso di sospensione e attesa delle figure e degli oggetti protagonisti dei suoi dipinti, che paiono fluttuare in uno spazio senza tempo, senza ingombro e materialità. Ed è proprio su questo aspetto che si concentra il progetto espositivo, dando risalto al ciclo di opere realizzate nei primi anni Settanta e raggruppate sotto il titolo di «Archeologia» (1973) e «Archeologia con De Chirico» (1971-73).
Si tratta di un’archeologia «del sapere», come la definisce il critico e storico dell’arte Arturo Carlo Quintavalle nella sua monografia dedicata a Tadini, dove reperti di epoche e stili differenti della tradizione artistica emergono da strati geologici diversi per incontrarsi sulla stessa tela. Collocati sulla superficie e privati dei rispettivi rapporti prospettici, gli elementi rappresentati invitano a una differente percezione della realtà, possibile grazie ad associazioni libere e intuitive.
L’artista va in cerca di visioni inedite e per farlo attinge a dimensioni «altre», come quella del sogno o delle emozioni. Ecco allora che Cubismo e Surrealismo gli vengono in soccorso e di quelli recupera la pratica di scomposizione delle forme, che gli permette di aprirsi a un nuovo lavoro di ricomposizione, fatto di assemblaggi imprevedibili e imprevisti. Tadini intenzionalmente rifugge il principio mimetico, perché ciò che veramente gli interessa è riprodurre un mondo in continua trasformazione, abitato da figure ambigue, allusive e non riconoscibili, al pari delle relazioni che instaurano con lo spazio nel quale sono collocate.
Dallo sperimentalismo degli esordi, l’autore approda a quadri senza più parole, con oggetti disparati e manichini dechirichiani. I piani narrativi si rincorrono senza mai afferrarsi e allo spettatore è lasciata la facoltà di creare il proprio personale progetto interpretativo, in accordo con il continuo farsi e rifarsi della vita. La mostra, visibile sino al 9 luglio,raccoglie anche una versione bronzea de «Gli archeologi» (ca. 1942) di de Chirico, oltre alle opere «Interno Metafisico»(1963), «Bagni misteriosi» (1968) e «Muse Inquietanti» (anni 40).