Per accompagnare la sua mostra aperta nella Serpentine North di Londra fino al primo settembre, Judy Chicago (Chicago, 1939) ha pubblicato un libro intitolato, come la mostra stessa, Revelations («Apocalisse»). Contiene un manoscritto miniato nato da una profonda ricerca sui miti della creazione di tutto il mondo. Il libro sovverte deliberatamente il mito della Genesi e altri sistemi di credenze patriarcali, proponendo una storia delle origini in cui l’universo inizia con un’immagine evocativa dell’esperienza femminile del parto, prima che «la Terra diventasse la dea primordiale... la madre di tutti gli esseri viventi».
Per Jonathan Jones del «Guardian» è eccessivo: «Non credo che esista una dea madre. O un dio padre... Penso che la vita sarebbe migliore senza alcun dio». Personalmente ritengo che Jones sia davvero troppo letterale. Revelations è un tentativo, scrive Chicago, di creare una Bibbia al femminile e, insieme a un disegno correlato, «In the Beginning from Birth Project», è un progetto fondamentalmente femminista: l’artista riteneva che sfidare i miti patriarcali avrebbe favorito una più ampia emancipazione e uguaglianza.
Ma anche se non sono d’accordo con Jones su Judy Chicago, ho provato un senso di apprezzamento leggendo i suoi commenti. Perché sempre più spesso l’arte esplora una serie di miti della creazione, sistemi di credenze e idee spirituali più ampie che sfidano molti principi convenzionali dell’analisi storica e critica dell’arte. In alcuni casi davvero fuori dal mondo. E poche cose più destabilizzanti per alcuni di noi che essere catapultati nel regno del woo-woo (l’espressione «woo-woo» indica qualcosa basato più sulla mistica e il soprannaturale che non sull’evidenza scientifica, Ndr). Non l’ho mai provato così intensamente come quando ho visitato la seconda metà della mostra di Marina Abramovic alla Royal Academy of Arts di Londra nel 2023. Dopo un inizio magistrale, dominato dalle prime opere cardine della Performance art, ci siamo trovati improvvisamente inondati di cristalli e metalli di cui dovevamo percepire le «energie».
Il problema, a mio avviso, non sta nelle idee in sé, ma nel modo in cui vengono realizzate ed esplorate. Per spiegarmi, evocherò una delle immagini più woo-woo dell’arte: l’Immacolata Concezione. Si tratta della convinzione che la Vergine Maria sia stata concepita senza peccato, un dogma del Cattolicesimo rifiutato dalla maggior parte delle altre chiese. La sua iconografia utilizzava una descrizione tratta dall’Apocalisse (nella Bibbia, non nel libro di Chicago) che è stata presa per descrivere la Vergine Maria: «Una donna vestita di sole, con la luna sotto i piedi e sul capo una corona di dodici stelle».
Già solo leggendo questa frase se ne può immaginare il potenziale kitsch. E, ragazzi, a che serie di strafalcioni ha dato il via... Anche tra artisti affermati come Bartolomé Esteban Murillo. Nel peggiore dei casi, le Immacolate Concezioni sono poco più che pacchianerie spirituali da strada. Ma nelle mani del giovane Diego Velázquez, nel dipinto conservato alla National Gallery di Londra, l’immagine, che ritrae una Maria giovane e vulnerabile, è poeticamente commovente; Velázquez mostra, già alla fine dell’adolescenza, una capacità di empatia pari alla sua prodigiosa abilità.
Ci sarà quindi arte buona e cattiva in relazione all’ampia gamma di credenze esplorate dagli artisti di tutto il mondo nel XXI secolo. I vecchi standard di riferimento della storia dell’arte occidentale potrebbero non essere adeguati per far fronte a queste esigenze. Questo mi sembra salutare; proprio come chiediamo ai musei e alle organizzazioni di adeguare i sistemi obsoleti, così le convenzioni critiche dovrebbero essere messe alla prova. Al centro della risposta di noi critici dovrebbe esserci sicuramente un principio umano e antico: il rispetto e la sensibilità per la fede o le convinzioni altrui, anche se non le condividiamo. Solo allora potremo iniziare a discuterne.