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Damiano Gullì. © Triennale Milano. Foto: Gianluca Di Ioia

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Damiano Gullì. © Triennale Milano. Foto: Gianluca Di Ioia

Gullì: ecco la mappatura della pittura italiana contemporanea

A ottobre Triennale Milano ospiterà una grande mostra con opere realizzate tra il 2020 e il 2023 da 120 artisti italiani nati tra gli anni Sessanta e i Duemila

Francesca Interlenghi

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Dal 19 ottobre 2023 all’11 febbraio 2024 Triennale Milano presenta una grande ricognizione sulla pittura italiana contemporanea. La mostra «Pittura italiana», a cura di Damiano Gullì, si inscrive nell’ambito delle celebrazioni del centenario dell’istituzione, iniziate con il nuovo allestimento del Museo del Design e proseguite con la mostra «Home Sweet Home», con l’obiettivo di mettere in relazione dialogica storia passata e contesto presente.

Curatore per arte contemporanea e public program di Triennale Milano, Gullì (Fidenza, 1979) ha selezionato 120 artisti italiani nati tra gli anni Sessanta e i Duemila, che utilizzano la pittura come medium d’elezione. Si va, tra gli altri, da Marco Neri (1968) a Luca Pancrazzi (1961), Marco Cingolani (1961), Alessandro Pessoli (1963), Pietro Roccasalva (1970), Pierpaolo Campanini (1964), Margherita Manzelli (1968), Pierluigi Pusole (1963), Massimo Kaufmann (1963), parte di quella che era la Scuola di Palermo con Alessandro Bazan (1966), Fulvio Di Piazza (1969) e Francesco De Grandi (1968), Luca Bertolo (1968) e poi Paolo Gonzato (1975), Riccardo Baruzzi (1976), il duo Vedovamazzei (Simeone Crispino, 1962, Stella Scala, 1964), fino ai più giovani come Beatrice Marchi (1986), Flaminia Veronesi (1986), Alice Visentin (1993), Giulia Mangoni (1991), Andrea Martinucci (1991) e Aronne Pleuteri (2001).

Dottor Gullì, perché Triennale Milano, un luogo con una spiccata vocazione al design e all’architettura, ha deciso di ospitare una grande mostra di pittura?
In realtà anche questo tema si collega alla tradizione della nostra istituzione che, già a partire dal 1933 quando si trasferì da Monza al Palazzo dell’Arte di Milano, presentò alcune mostre di pittura murale che videro coinvolti grandi autori, tra cui de Chirico e Sironi. Se pensiamo poi a figure come Gio Ponti, che ha sempre lavorato in una visione di unità delle arti, o di Fontana, che con la sua installazione al neon «Struttura al neon» (1951) ha riconfigurato la relazione tra opera e ambiente, non possiamo che concordare sul fatto che Triennale sia sempre stata una fucina di dialogo tra le arti. Un’attitudine interdisciplinare che oggi ancor di più, per volontà del presidente Stefano Boeri, della direttrice generale Carla Morogallo e di tutto il Comitato scientifico, si vuole ribadire, recuperando ed evidenziando, soprattutto nell’anno del centenario, un aspetto di fluidità tra diversi ambiti.

Il suo interesse per la pittura non è un fatto estemporaneo. Nel recente passato lei si è dedicato a una sorta di mappatura, condotta attraverso dialoghi, confronti, studio visit, poi confluiti in una rubrica a sua firma su «Artribune», in cui ha raccolto un centinaio di interviste di pittori italiani.
Quella è stata una grande palestra e, per certi versi, il punto di partenza. Mi incuriosiva l’idea di raccontare la pittura, da un lato collegandomi al passato, per riflettere sul presente e dare conto dello stato dell’arte attuale. Ma, soprattutto in questo mio ruolo curatoriale, sono animato dalla convinzione che sia importante per un’istituzione prestare attenzione anche alla scena del proprio Paese.

Immagino che non si tratti di mero campanilismo…
Triennale lavora e continua a lavorare con un respiro e un’apertura internazionali. Ritengo però che, attraverso un sistema di mostre ed eventi, si possa cercare di far fronte a un’insoddisfazione diffusa per il fatto che la scena dell’arte contemporanea italiana, non solo quella pittorica, non goda di riconoscibilità da parte del sistema internazionale. E attuare così azioni di promozione e valorizzazione analoghe a quello che accade in Francia con i Frac (Fonds Régionaux d’Art Contemporain, Ndr), in Svizzera, Austria e Germania con le Kunsthalle e le Kunsthaus o ancora negli Stati Uniti con la Biennale del Whitney Museum riservata agli artisti americani. Insieme al presidente Boeri, abbiamo costituito un honorary board composto da personalità di rilievo quali Hans Ulrich Obrist, Francesco Bonami, Alison M. Gingeras e Suzanne Hudson. Con loro ho aperto una finestra di dialogo, ho raccontato lo sviluppo di questa mostra e mostrato il lavoro degli artisti. In quest’ottica mi è parso molto coerente in questi ultimi anni dare sempre più spazio in Triennale a figure trasversali o comunque non facilmente etichettabili come Corrado Levi o Lisa Ponti, ad artiste e artisti a me vicini generazionalmente come Anna Franceschini o Nico Vascellari o altre ancora come Francesco Vezzoli e Marcello Maloberti. Sempre mosso dallo stesso intento di fondo: avere uno sguardo trasversale sulle discipline.

Si potrebbe obiettare che organizzare una grande mostra di pittura sia in realtà un modo per far convergere lo sguardo su una cosa molto precisa e specifica. Come si accorda questo con l’idea di rendere meno cogenti i confini che separano le arti?
La nozione di pittura è qui assunta in un senso molto ampio. Dati due macropoli, l’astratto e il figurativo, due polarità che fungono da guida nel percorso, c’è sempre l’idea di indagare una pittura che si intreccia con altre discipline. Dalla pittura espansa, che dialoga con gli spazi, con le architetture e gli ambienti, che si allarga, si fa scultura, tessuto o pattern, alla pittura che guarda alla tradizione per rivisitarla e stravolgerla completamente. Dalla pittura che rielabora quella analitica alla pittura che magari si fa figurativa attraverso l’astrazione, o viceversa. Mi interessava dare enfasi a questa pluralità di linguaggi.

Dal punto di vista curatoriale come ha organizzato questa mostra?
Ho deciso di iniziare a guardare a chi ha operato subito dopo l’onda lunga della Transavanguardia o di quelli che sono stati gli ultimi grandi movimenti legati alla pittura, i Nuovi-Nuovi piuttosto che il Magico Primario. Gli artisti che hanno iniziato a lavorare dagli anni Novanta in poi, hanno inevitabilmente subìto l’importanza di queste correnti, uno spartiacque tra un prima e un dopo. Nel tempo sono cambiati i gusti, i mezzi, si è affacciata l’estetica relazionale, sono entrati in gioco nuovi media, è aumentato l’interesse per la performance e per altre modalità di esperienze ed è come scemato l’interesse nei confronti della pittura. Non è tanto voler dire che la pittura è un linguaggio vivo o morto, perché ritengo sia un linguaggio continuativo e dotato di una forza e una tradizione che si legano indiscutibilmente alla storia del nostro Paese. Ma, pur essendo soggetta anch’essa a mode e tendenze, ci sono tanti artisti che continuano a operare in questo settore con grande coerenza, serietà e determinazione. Mi piaceva l’idea di raccontare queste esperienze, anche perché vedo che oggi le nuove generazioni hanno un rinnovato piacere nell’avvicinarsi alla pittura, molta più disinvoltura, sentono meno il peso del suo portato storico o della possibile penalizzazione di questo linguaggio all’interno di una serie di corsi e ricorsi, a livello nazionale e internazionale.

Che cosa ha chiesto agli artisti in termini di produzione? Di misurarsi con un tema? Un momento storico? Oppure ha rimesso a loro la scelta delle singole manifestazioni creative?
Nonostante ci sia un attraversamento generazionale, con autori nati dagli anni Sessanta agli anni Duemila, ho rinunciato a un percorso cronologico che si sviluppasse lungo una linea temporale, dalla fine della Transavanguardia in avanti. Piuttosto, muovendomi liberamente tra i due poli di figurazione e astrazione, ho chiesto agli artisti di esporre opere realizzate tra il 2020 e il 2023. La mostra ambisce a essere una fotografia del presente. Idiosincratica ovviamente, perché mi assumo la responsabilità di aver fatto delle scelte, di aver incluso qualcuno ed escluso qualcun altro. L’intento è di mettere tutti sullo stesso piano e restituire quello che sta accadendo oggi. Ovviamente l’arco temporale preso in considerazione ha prodotto una serie di trasformazioni sociali e storiche importanti: la pandemia, la guerra, l’intelligenza artificiale. Un periodo di forti complessità ma anche a volte di opportunità, nate proprio da quelle difficoltà. Quindi la mostra è veramente uno spaccato di un tempo.

Che tipo di allestimento ha immaginato?
Vorrei che fosse un tragitto emozionale. Con l’architetto Italo Rota stiamo lavorando per produrre una sorta di scivolamento fra un polo e l’altro. Alcuni artisti sono prettamente figurativi, altri molto astratti, ma tanti lavorano su un territorio di mezzo, per cui arrivano all’astrazione attraverso la figurazione o viceversa. Mi piacerebbe restituire questa sensazione di passaggio da una dimensione all’altra, in maniera molto fluida e disinvolta, anche in considerazione dello spazio espositivo in cui andremo a lavorare. Si tratta della curva del primo piano, 1.200 metri quadrati a forma di emiciclo che favoriscono naturalmente un senso di circolarità, metafora di un continuo trasformarsi e divenire. Inoltre, agli artisti è data la possibilità di esprimersi anche con opere di grandi dimensioni e a qualcuno ho chiesto di confrontarsi con lo spazio andando a recuperare la tradizione delle mostre di pittura murale a cui accennavo all’inizio, intervenendo proprio sull’architettura del palazzo, con dei wall drawing o interventi site specific. Immersivo è un termine abusato che non mi piace, preferisco invece prendere a prestito le parole di Rota: «Vorrei che si sentisse l’odore della pittura, proprio come quando nei vernissage di una volta si sentiva l’odore della vernice non ancora del tutto asciutta». Un’esposizione accessibile, è forse questo il termine più corretto. Perché Triennale Milano non vuole essere un’istituzione rivolta esclusivamente agli addetti ai lavori, ma sempre di più intende espandere il proprio pubblico e parlare a tutti, diventando un luogo aperto e comprensibile a ogni livello.

Damiano Gullì. © Triennale Milano. Foto: Gianluca Di Ioia

Francesca Interlenghi, 06 giugno 2023 | © Riproduzione riservata

Gullì: ecco la mappatura della pittura italiana contemporanea | Francesca Interlenghi

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