Image

Verifica le date inserite: la data di inizio deve precedere quella di fine

Rashid Johnson, «Sanguine», 2024 (particolare)

Courtesy the artist © Rashid Johnson, 2024

Image

Rashid Johnson, «Sanguine», 2024 (particolare)

Courtesy the artist © Rashid Johnson, 2024

I colori di Rashid Johnson hanno un’anima

La prima retrospettiva dell’artista americano occupa l’intera rotonda di Wright al Guggenheim di New York: oltre 90 opere tra dipinti, sculture e video ne ripercorrono la trentennale attività 

Come ha recentemente affermato Naomi Beckwith, direttrice del Guggenheim Museum di New York, Rashid Johnson (1977) è cresciuto «nell’epoca della “unapologetic Blackness”, l’identità dell’esser neri senza chiedere scusa a nessuno». L’artista, che è nato e si è formato a Chicago e Evanston, in Illinois, fin dai primi anni di studi e di carriera artistica si è occupato della «black experience». Quando ancora frequentava il Columbia College a Evanston cominciò a realizzare una serie fotografica di ritratti degli abitanti del quartiere di Chicago South Side, la mostrò a Martha Schneider, che in città dirigeva la Schneider Gallery e subito organizzò una mostra, «Seeing in the Dark», con quelle fotografie che ritraevano afroamericani il cui viso raccontava anni di vite faticose e di duro lavoro. Ne seguirono altre, tra cui quella che si tenne nel 2001 allo Studio Museum di Harlem, a New York, durante la quale Thelma Golden, allora curatrice del museo, scatenò una grande polemica descrivendo le opere di Rashid e di altri artisti esposti come «free-style» e «post Black», intendendo, come spiegò in catalogo, che questi artisti avevano le idee chiarissime sul non voler essere definiti «artisti di colore» ma semplicemente «artisti». Anche se poi il loro lavoro rifletteva una profonda indagine sulla complessità dell’«essere di colore». Quella mostra, intitolata «Freestyle», lanciò la carriera di Johnson. Nel 2002 ne seguì un’altra ancora più controversa, «Chickenbones and Watermelon Seeds: The African American Experience as Abstract Art» che esponeva fotografie raffiguranti alcuni dei più comuni stereotipi sugli afroamericani. Nel frattempo le sue opere cominciarono a essere acquistate a cifre tra i 500mila e i 2 milioni di dollari. Finché, nel 2022, uno dei suoi quadri bianchi della serie «Surrender Paintings» è stato venduto all’asta per 3 milioni. 

Rashid Johnson, «The Broken Five», 2019. Courtesy the artist. © Rashid Johnson, 2024. Foto: Martin Parsekian

Ora, dal 18 aprile al 19 gennaio 2026, il Guggenheim (del cui consiglio di amministrazione, primo artista nella storia del museo, Johnson ha fatto parte dal 2016 al 2023) gli dedica la prima grande retrospettiva, «Rashid Johnson: A Poem for Deep Thinkers», che occupa l’intera rotonda di Frank Lloyd Wright. Oltre 90 opere raccontano la sua carriera quasi trentennale. Sono in mostra le celebri serie «The New Negro Escapist Social and Athletic Club», «Cosmic Slops», i «black-soap shelf paintings» fatti di sapone africano e cera, i quadri con la tinta spray e le più recenti serie «Anxious Men» e «Broken Men», oltre a gigantesche sculture astratte. «Anxious Men» ha debuttato nel 2015 in una personale al Drawing Center di Soho, a New York e, in quell’occasione una recensione del «New York Times» definì il suo del colore «viscerale». «Broken Men» è stata invece ispirata dalle opere di Gaudí, dai mosaici catalani e dalla ceramica visti durante un viaggio a Barcellona. La mostra comprende anche alcuni lavori della più recente serie «Anxious Red Paintings», completata nel 2020 e caratterizzata dall’uso di un rosso carminio magnetico («il colore ha la sua anima», ha affermato di recente l’artista), ispirata all’omicidio di George Floyd nell’estate del 2020 e a tutto quel che n’è seguito. Il percorso include anche video, tra cui «Black Yoga» (2010), «The New Black Yoga» (2011) e «Sanguine», il film realizzato da Johnson lo scorso anno.

Calvin Tomkins ha scritto recentemente su «The New Yorker» che Naomi Beckwith, curatrice di questa mostra, e Rashid Johnson hanno molto in comune: sono stati cresciuti nello stesso ambiente da genitori appartenenti alla sfera accademica e che facevano parte del «Black Power Movement». La stessa Beckwith, descrivendo a Tomkins i suoi genitori, ha detto che «sono sempre stati molto chiari riguardo al fatto che nel momento in cui avessimo messo piede fuori di casa non saremmo stati lì a rappresentare la nostra famiglia, la nostra comunità, ma, in qualche modo, l’intera “Black race”». Alla domanda di Tomkins se questa fosse una responsabilità difficile da sopportare, Naomi Beckwith ha risposto: «Probabilmente. Ma anche una grande fonte di sicurezza in noi stessi, oltre che d’ansia». 

Rashid Johnson, «Untitled Escape Collage», 2018. Courtesy the artist. © Rashid Johnson, 2024. Foto: Martin Parsekian

Viviana Bucarelli, 16 aprile 2025 | © Riproduzione riservata

I colori di Rashid Johnson hanno un’anima | Viviana Bucarelli

I colori di Rashid Johnson hanno un’anima | Viviana Bucarelli