Verifica le date inserite: la data di inizio deve precedere quella di fine
Silvia Conta
Leggi i suoi articoliÈ l’elettrizzante presente del MAH Museé d'Art e d'Histoire di Ginevra, dove è in corso la mostra "La Genevoise" di Carol Bove (1971, Ginevra. Vive e lavora a New York), una riflessione che germina da una collezione che comprende 15mila anni di storia e giunge a ripensare la funzione dell’istituzione stessa. Quest'analisi si colloca in un momento di profonda trasformazione del MAH, che nei prossimi anni vedrà un sostanziale ampliamento della propria sede. Il museo, d’altro canto, è votato alla sperimentazione costante secondo la visione di Marc-Olivier Wahler, direttore dal 2019, che abbiamo intervistato in occasione dell'inaugurazione della mostra. Wahler, noto per la sua concezione di museo come ecosistema, ha posto in essere questo concetto nei suoi numerosi incarichi, svoltisi in particolare tra Europa e Stati Uniti, fra cui ricordiamo la direzione del Palais de Tokyo (2006-2012) e dello Swiss Institute a New York (2000-2006).
Il museo occupa oggi la sua sede storica di settemila metri quadrati, commissionata all'architetto ginevrino Marc Camoletti e edificata tra il 1903 e il 1910, per raccogliere in un'unica sede un eterogeneo gruppo di collezioni pubbliche e private. Da qualche anno è in corso la progettazione dell'ampiamente dell’edificio che un duplice intento: esporre una porzione più consistente della collezione e creare degli spazi per dare vita al MAH del futuro, che mira a diventare sempre più polo di riferimento per la vita urbana di Ginevra. Nella mostra in corso fino al 22 giugno 2025 Bove osserva la consistenza delle collezioni del museo, quali siano i periodi storici più rappresentati e attraverso quali manufatti lo siano, cercando di rendere questi dati concretamente visibili ed esperibili grazie alla rappresentazione della cronologia in forma di una pedana bianca minimalista, un’ideale linea retta che attraversa tutte le sale del primo piano del museo. Su di essa sono collocati dei manufatti a rappresentare i vari periodi storici, e vi scorre parallela una struttura metallica nera con le riproduzioni tridimensionali dei medesimi oggetti affinché possano essere toccati dai visitatori. Questa peculiarità dell’allestimento si innesta sul tema della multisensorialità, uno degli aspetti chiave del lavoro del museo negli ultimi anni.
Il progetto espositivo, fortemente concettuale, si esprime attraverso alcuni dei principali elementi della ricerca di Bove, tra cui l’uso dei materiali industriali, la tendenza a rimanere in bilico tra astratto e figurativo, l’invito ad esperire in modo sensoriale le opere. Questi elementi assumono una forza dirompente grazie al sapiente utilizzo dello spazio (e di rimandi cromatici concatenati tra le sale, in particolare in dettagli come le date a parte e le sedute), che nel rimanere a tratti vuoto, restituisce l'attenzione visiva all'architettura dell'edificio, aprendo a numerosi interrogativi sul suo utilizzo e sulla sua funzione, suggerendo la riscoperta del museo come entità complessa, che attraverso le scelte di conservazione, allestimento e esposizione ha precise responsabilità (e opportunità) nella narrazione storica e sociale.
Il progetto espositivo di Carol Bove in corso ora al MAH rientra nella vostra serie di mostre definite XL, di che cosa si tratta?
«Il progetto XL è una carta bianca che ogni anno metaforicamente consegno a un artista per realizzare una mostra che non si concentri direttamente sul suo lavoro, ma che sia un momento di audacia rispetto alla sua ricerca. Lo invito a creare la mostra che ha sempre sognato di realizzare, ma per la quale non si è mai presentata l’opportunità. Questo museo è enciclopedico, le sue collezioni vanno dall'archeologia all’arte contemporanea, passando per monete, armature, vetro, arti applicata, che oltre al valore storiografico, artistico ed estetico, hanno anche un grande significato rispetto alla storia del territorio. Quando invitiamo gli artisti a lavorare sulla collezione, in genere, sono molto interessati a individuare e mescolare diversi aspetti che ne emergono, riescono a fornire letture inedite, e, soprattutto, a tradurre i concetti in forma spaziale».
Quali sono le radici del progetto XL?
«È iniziato dalla mia personale constatazione che le migliori mostra che ho visto negli anni sono sempre stati curati da artisti. La prima è stata The Uncanny di Mike Kelly, nel 1993 a Vienna, di cui fu realizzata una versione più ampia nel 2004 a Liverpool. Quando l'ho visitata ho pensato che quella fosse la mostra che avrei sempre voluto fare, all'epoca non avevo ancora l'esperienza professionale per creare nulla di simile. Nel corso della mia carriera ho curato più di cinquecento mostre, ma ogni anno, lavorare con un artista a XL è come tornare all’università. Invito gli artisti a curare le mostre perché hanno un modo di pensarle totalmente diverso rispetto ai curatori. L’esposizione di Carol Bove in corso ora è assolutamente rilevante in quel senso, nessun curatore l’avrebbe mai immaginata così. Inoltre lei lavora su diversi livelli di percezione, non solo quella visiva, ma anche sull’aspetto spaziale e tattile».
Come è nato l'invito a Carol Bove?
«Fino ad ora ho sempre lavorato con artisti che conosco da molto tempo, perché il progetto XL è basato sulla fiducia, posso più o meno prevedere la direzione in cui un artista si muoverà. Per me è più semplice lavorare con artisti che conosco da molto tempo, perché non tutti gli artisti sono buoni curatori. Ho conosciuto Carol circa venticinque anni a New York, abbiamo lavorato insieme a Tokyo e Los Angeles ed è iniziata una conversazione che prosegue da allora».

MAH_250128_0259_©StefanAltenburger
Questo percorso espositivo verte anche sulla vostra idea di museo…
«Cerchiamo di porre in essere ciò che chiamiamo il museo multifrequency, è un esperimento a tutto tondo su ciò che è possibile fare in un museo, è la nostra visione per il museo del futuro. In un museo ci si può naturalmente concentrare sull'esperienza estetica, ma che altro si può fare? L’idea è di poterlo visitare o abitare come se fosse la casa di collezionisti, in cui si possono guardare le opere, ma anche ascoltare, toccare, sentire, rilassarsi, socializzare o vivere un momento di convivialità. In un museo del XIX secolo tutto questo era possibile, perché era un centro di ricerca, smile a un’università, i suoi confini erano meno statici e definiti. Oggi è molto cambiato, al suo interno si può solo guardare, bisogna essere silenziosi, non si può toccare, è quasi un'esperienza religiosa. Cos'altro si potrebbe invece fare? Qui al MAH cerchiamo costantemente di sperimentare le potenzialità del museo in questa direzione».
Tutto questo si esprime sia nel percorso espositivo di Carol Bove che nell’installazione di La Passerelle di Vincent Lamouroux, inaugurata l’agosto scorso e ancora percorribile.
«Sì, nella mostra di Bove ci sono oggetti da toccare e spazi pieni e vuoti da esperire, per noi è molto importante perché attraversare un percorso espositivo è un'esperienza cinestetica, fisica, si passa dal punto A al punto B muovendosi nello spazio con il tuo corpo, si scrive la propria coreografia, con un ritmo soggettivo. Un certo parallelismo si può rintracciare in La passerelle di Vincent Lamouroux, sospesa nella corte interna del museo, che lo rilegge come un cubo di circa 28 per lato. Anche questo lavoro è in relazione sia alla multisensorialità, sia al futuro del museo».
In che modo queste mostre contribuiscono alla vostra riflessione sul nuovo edificio?
«È necessario riflettere su quale tipo di museo vogliamo progettare. La maggior parte dei musei che si aprono oggi sono sostanzialmente costruiti nello stesso modo in cui venivano progettati cinquant’anni anni fa, ma la società sta cambiando e dobbiamo tenerlo in considerazione. In questo senso La passerelle può essere una metafora: permette di attraversare il museo passando direttamente dall’entrata principale al lato opposto percorrendo la passerella sospesa nella corte e entrando nelle sale espositive da una finestra…che è sempre stato il mio sogno [ride, ndr]. Questo ponte sarà poi preso in considerazione dal prossimo artista o architetto che interverrà quest'estate e lo includerà nelle sue strutture. Diventerà una sorta di lavoro collettivo».

MAH_250128_0314_©StefanAltenburger
Qual è l'aspetto più sfidante del MAH di domani e quali saranno le tempistiche dell’ampliamento?
«Il futuro progetto di ristrutturazione del MAH, attualmente in fase di pianificazione, mira a restaurare e ripensare il museo per accogliere la sua vasta collezione. L'obiettivo è anche quello di integrare maggiormente l'istituzione nella vita urbana di Ginevra, rendendola un polo culturale centrale. La proposta architettonica vincente sarà annunciata nella primavera del 2025. Il progetto potrebbe essere sottoposto a referendum, sono in corso discussioni con le associazioni locali per affrontare considerazioni di carattere ecologico e patrimoniale».
Come state procedendo?
«Il Musée d'Art et d'Histoire de Genève è uno dei principali musei della Svizzera. Il MAH di domani sarà un museo accogliente e creativo, dedicato all'arte, al pensiero critico e alla comunità locale. Lavorare alla progettazione molto stimolante. Ci sono voluti alcuni anni per scrivere il masterplan, perché in esso vogliamo integrare tutti i concetti e gli esperimenti che abbiamo elaborato e condotto nel tempo, soprattutto sull’apertura a vari tipi di frequentazione del museo.A livello pratico rinnoveremo l'edificio originario del 1910, che non è mai stato modificato, e lo amplieremo includendo l’edificio adiacente, ora sede di due scuole, di cui una d’arte. Al momento i due edifici si presentano come due strutture a pianta quadrata, li uniremo in un’area di forma rettangolare che diverrà una sorta di campus di musei».

MAH_250128_0328_©StefanAltenburger