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Jenny Dogliani
Leggi i suoi articoliFirenze. Cuneese, classe 1975, Fabio Viale, tra gli artisti più abili a scolpire il marmo, infonde in ogni dettaglio tradizione millenaria e sensibilità contemporanea. La Galleria Poggiali ha riaperto, dopo una lunga pausa per il Covid-19, la personale «Acqua alta - High tide», visitabile sino al 4 ottobre, con due titaniche installazioni: le «Bricole» e «Root’la».
Come sono nate le «Bricole»?
Per l’ultima Biennale di Venezia sono stato invitato a pensare un’opera che ponesse al centro elementi caratterizzanti della città. Le bricole hanno dei valori aggiunti dati dalla forma e dalla superficie. Ho iniziato a vederle come figure e ho deciso di rappresentarle come una qualsiasi scultura figurativa.
A Venezia le «Bricole» erano immerse in un canale ricreato nel Padiglione. A Firenze?
Hanno una loro autonomia formale che le rende ancor più scultoree: sono messe in evidenza la forza di una forma e l’incanto di una superficie fatta di una texture che ricrea fedelmente il tempo e il passaggio dell’acqua. Le basi, ossidate dalla permanenza nel Padiglione Venezia, ne aumentano i toni, portandole quasi al drammatico. Sono sculture monumentali, colonne-figure di una forza fallica non data dalla monumentalità dell’impatto, ma dalla relazione impari tra uomo e natura.
Ci parli di «Root’la».
È un enorme ravaneto, ricostruito in galleria, ricco di frammenti scultorei: un’installazione colossale in un ambiente alto 4 metri, con 15 tonnellate di detriti e circa 10 tonnellate di sculture marmoree, frutto di una performance fatta a inizio febbraio a Carrara. I soci della cooperativa Cave di Gioia mi hanno messo a disposizione un ravaneto per una performance durante la quale ho fatto rotolare a fondovalle una serie di sculture acquistate da me in un negozio di souvenir. La caduta e il rotolamento ne hanno provocato la distruzione parziale e una sorta di frammentazione, rendendole molto simili ai reperti greci e romani conservati nei musei. Non è importante porre l’attenzione sulle singole opere, ma sul loro funzionamento nell’insieme. L’installazione è come un quadro tridimensionale dove solo a una certa distanza è possibile visualizzare le opere distinguendole dai sassi. È come se la scultura tornasse alla sua radice: il marmo.
Perché un ravaneto?
Ho pensato di usare il ravaneto come uno strumento di scultura. Da Michelangelo ad Arturo Martini si è sempre immaginato di prendere le sculture e farle rotolare dai ravaneti per purificarle dagli eccessi. Gli scarti di lavoro e di fatica hanno un’energia che non può essere sottovalutata e subire la classificazione di detriti. In galleria essi sono affiancati e confrontati alle opere, diventando un tutt’uno in grado di trasmette un valore che ne va ben oltre.

«Root’la», una delle due installazioni monumentali di Fabio Viale