Non fu il Grand Tour, obbligatorio viaggio di formazione dei colti europei, la vera origine delle Accademie straniere a Roma. Né la passione degli artisti per muschi, rovine, muri cadenti. Queste cose arrivarono solo con Goethe e Winckelmann, i romantici e le riunioni degli artisti tedeschi al Caffè Greco di Roma, che furono invece le incubatrici dei Kunstvereine, luoghi destinati al confronto fra artisti e studiosi per discutere e promuovere le arti. Molto prima che il Romanticismo glorificasse la passione per l’antico e per i frammenti di statue, già nel Seicento gli artisti arrivavano a Roma per un più prosaico motivo: il fiorire di un mercato che garantiva denaro e committenze grazie alle famiglie nobiliari, al Vaticano e alla presenza delle più ricche diplomazie internazionali. È quanto racconta Lorenzo Benedetti, curatore (con Francesca Campana) della mostra «Expodemic», aperta fino al 25 agosto nel Palazzo delle Esposizioni di Roma. Secondo appuntamento di un festival promosso da Marco Delogu, presidente del Palaexpo che annualmente vuol riportare l’attenzione sulla presenza delle Accademie e degli Istituti di Cultura stranieri nella capitale. Fenomeno unico che conta ormai oltre una quarantina di realtà cresciute in un arco di tempo che va dall’Accademia di Francia, fondata da Jean Baptiste Colbert e Gian Lorenzo Bernini nel 1666, a quella di Corea, ultima nata nel 2016.
Il grande merito di questa edizione è anche l’aver sottratto all’oblio un personaggio chiave di questo processo: Giuseppe Ghezzi, pittore ma anche uomo di legge e notaio che nella metà del XVII secolo, come tanti altri giovani aspiranti artisti, arriva in cerca di fortuna a Roma. Lì, Ghezzi si inserisce nelle prime Accademie tra cui quella di San Luca, di cui diventa segretario, e quella dei Virtuosi, che proprio sotto il suo impulso cominciano a organizzare esposizioni di dipinti che cambieranno profondamente il sistema grazie alla costruzione di un più democratico collezionismo e di una maggiore autonomia degli artisti che fino ad allora erano alle dipendenze delle diverse famiglie nobiliari. Ghezzi è un artefice di questa rivoluzione. La sua esperienza di notaio gli permette di perfezionare il meccanismo, costruire mostre chiedendo capolavori alle grandi collezioni, inventare le schede di prestito, registrare l’elenco degli artisti e delle opere. In poche parole, fonda il modello di mostra d’arte che resta tutt’ora attuale. È proprio questo il nucleo della proposta di Lorenzo Benedetti: raccontare come l’Accademia, la mostra e l’apparizione sulla scena del pubblico siano non solo indissolubilmente legate ma segnino l’inizio dell’età moderna e della nascita della borghesia. La mostra si apre con il voluminoso manoscritto di Giuseppe Ghezzi, zibaldone che raccoglie l’elenco dei «Quadri delle Case de Principi in Roma» (documento prezioso sulla nascita del collezionismo privato), per poi estendersi in un immenso grafico sulla parete nel quale, Accademia dopo Accademia, è tracciata la storia di un fenomeno che vede massima proliferazione nel corso del primo Novecento, epoca in cui le Accademie d’arte finiscono per ricoprire anche un ruolo politico e diplomatico.
Grazie all’Esposizione Universale del 1911, ad esempio, concepita per regalare alla giovane nazione Italia quel ruolo «inter pares» a cui ambisce, intorno a viale Belle Arti e accanto alla nostra Galleria Nazionale furono donati terreni alle grandi potenze mondiali per la costruzione delle Accademie del Belgio, di Romania, Egitto, Olanda, Gran Bretagna, Giappone e Austria. Se ne aggiungeranno molte altre e tutte, ospitando artisti attraverso un sistema di residenze, costruiranno nel tempo un felice scambio di visioni e costruzioni di nuovi linguaggi che avrebbe potuto fare della scena artistica romana una dimensione corale decisamente unica. Il condizionale è d’obbligo perché purtroppo questo potenziale non è stato sufficientemente sfruttato, mentre con un maggiore coordinamento avrebbe potuto assumere una dimensione globale e un prestigio internazionale com’è accaduto con i Padiglioni della Biennale di Venezia. Ed è quello che il festival in generale e questa edizione in particolare vuole proporre anche attraverso un calendario di eventi collaterali, per mostrare quanto tra le mura delle accademie sia vitale una ricerca che non è più neanche costretta dentro i confini nazionali ma, grazie a residenti in arrivo da diverse geografie e culture, si è aperta a uno sguardo globale.
Ed ecco nel percorso della mostra l’iraniano Kamrooz Aram che, come la straordinaria Fatma Bucak nata in Turchia, è ospite dell’Accademia americana. Oppure Hamedine Kane, senegalese in residenza all’Accademia di Francia, o il marchigiano Jacopo Belloni di stanza all’Istituto Svizzero. Anche i temi, che le opere rivelano con la singolarità che arriva da linguaggi intensi e maturi, parlano di attualità con forza poetica e politica. Com’è il caso di Fatma Bucak, che con sottile linguaggio simbolico pone il suo sguardo sulla crisi climatica o la violenza della guerra attraverso le ferite della natura. O Zachary Fabri, artista di Brooklyn ora alla British School, che con un video sull’abbandonato monumento ai caduti di Dogali pone l’accento da una parte sulla retorica del colonialismo, dall’altra sul paradosso della decadenza di quel luogo celebrativo ora abitato da homeless. E poi la commovente e potente video-performance di Pedro Luis Cembranos (Real Academia de España) che affronta muscolarmente il degrado di una discarica per recuperare i rifiuti trasformandoli in installazioni e sculture, regalando nuova dignità ai luoghi.
Ma oltre alle opere in mostra, dal festival arriva la proposta di raccogliere poster sparsi in varie sedi tra accademie e istituti, distribuiti gratuitamente e realizzati per l’occasione da artisti accademici o ex residenti. Nomi che vanno da John Armleder a Elisabetta Benassi, Matt Mullican, Giulio Paolini, Hans Schabus, Domenico Mangano&Marieke van Rooy. Un pellegrinaggio che non è solo l’occasione per costruire una singolare collezione, ma la scoperta di un’invisibile rete che lega la città e la rende un panorama davvero unico sulla scena internazionale. E questo non da oggi, ma fin dai tempi del ritrovato Giuseppe Ghezzi.