Nel Palazzo delle Esposizioni, dal 22 aprile al 27 agosto, Francesco Vezzoli (Brescia, 1971) illustra la sua concezione dell’arte senza tempo, nella mostra «Vita Dulcis. Paura e desiderio nell’Impero romano». A curarla è lui stesso, insieme a Stéphane Verger, direttore del Museo Nazionale Romano. Dai depositi delle quattro sedi del grande museo archeologico (Palazzo Altemps, Palazzo Massimo, Terme di Diocleziano e Crypta Balbi), Vezzoli ha infatti scelto decine di opere d’arte antica per collocarle in un contesto contemporaneo costituito da proprie opere e installazioni.
Ne risulta una mostra d’arte contemporanea, nella quale poter incontrare busti di Antinoo, ritratti di imperatori, un Ermafrodito dormiente, una testa di Medusa, una di Alessandro Magno e una del dio Marte, ma anche 75 sculture di ex voto a forma di utero e 50 lapidi funerarie. Parallelamente, un video riporta, in un collage creativo, spezzoni di film ambientati a Roma, da «Cabiria» a «Satyricon».
Partiamo dal titolo: dunque è dolce la vita, Vezzoli?
Per me sì, ma non è dolce per tante persone di tante parti del mondo. Però, per chi ha la fortuna di vivere in un Paese in cui sono rispettati i diritti civili e dove vige un relativo benessere materiale, è quasi un dovere etico rendere dolce la vita.
Continuiamo col sottotitolo: di che cosa ha paura e che cosa desidera?
Io ho paura dell’oblio, il mio, per prima cosa, perché sono vanitoso. E poi ho paura che le persone dimentichino le cose importanti. Ciò che desidero, invece, è trovare un’angolazione attuale sulle storie raccontate da questi meravigliosi reperti, che parlano di miti, amori, guerre, dolore. Non mi piace il termine contemporaneo, preferisco «presente». Ecco, ho bisogno di un approccio presente ai temi di sempre.
Ci parli del suo personale Grand Tour tra i depositi dei musei nazionali di arte antica.
È stata una delle emozioni più grandi della mia vita: in quei depositi si nascondono altri musei costituiti da opere abbandonate. Ma io non ho voluto abbandonarle, perché ciascuna mi ha dato qualcosa. Quelle mutile, per esempio, contenevano una realtà in più, spesso quella della damnatio memoriae. Anche questa è bellezza.
Che rapporto ha con Roma?
D’amore. È la più bella città del mondo. Ci vivrei, se fosse meglio equipaggiata per l’arte contemporanea. Fatto sta che, su 10 macroperiodi della storia del mondo, in almeno sette Roma ha lasciato il segno.
Che cosa cerca nell’antico?
Un po’ anche me stesso. Quando al liceo cercavo delle rispondenze con la mia identità, le trovavo in Adriano e Antinoo, in Achille e Patroclo, in Eurialo e Niso. Sono storie in cui ti ritrovi, perché la classicità ha raccontato i destini del mondo. Per esempio, se leggi le Vite dei Cesari di Svetonio, capisci tutto quanto capita oggi nel mondo.
È più importante essere iconico o ironico?
Amo essere iconico, ma l’iconicità è una grande responsabilità, perché può essere distrutta in ogni momento, e mantenerla in eterno è una lotta vana. Mi salva allora l’ironia, perché mi permette di leggere i fallimenti con un sorriso. L’ironia addolcisce tutto, l’iconicità rischia di ucciderti: le più grandi icone della storia sono tutte morte giovani, da Antinoo a James Dean...