Racconta Paolo Colombo (Torino, 1949) che se molti anni fa l’Alitalia non avesse smarrito il suo bagaglio forse la sua vita (perlomeno quella di artista) sarebbe stata diversa. Ma il caso volle che nella valigia dispersa fra gli aeroporti del mondo ci fosse tutto l’armamentario di un pittore-pittore: tele, pennelli, tubetti di colore a olio e acrilico, solventi... Deprivato di tutti i suoi strumenti Colombo prese una drastica decisione: d’ora in poi avrebbe lavorato solo con carta e acquarello in modo da poterli portare sempre con sé. Del resto, una scatola di Winsor & Newton e uno sketch book non erano più ingombranti della penna e del foglio necessari alla sua attività di poeta che compenetrava quella di artista. E poi la leggerezza dell’acquarello si relazionava intimamente a quella del verso o della parola da cui nasceva la sua asciutta ma intensa poesia.
Si può anche dire di più: tanto la poesia di Colombo aveva la peculiarità di evocare visioni, tanto la sua meditativa tecnica, costruita su un pointillisme meticoloso (che raggiungeva i 150-200mila punti a foglio) o su sottili tessiture cromatiche, circondava e dava struttura alla parola trasformandola in immagine. Da questi due poli nasce una poetica delicata, musicale, armonica fondata su un’idea di leggerezza densa di contenuto. Non è un caso se un suo mentore fu Fausto Melotti che riconobbe in quegli acquerelli alcune delle sue idee estetiche. «L’arte è stato d’animo angelico, geometrico. Essa si rivolge all’intelletto e non ai sensi», diceva, e dunque le geometriche e angeliche opere di Colombo tanto gli corrispondevano che nel 1974 volle presentare in catalogo la prima mostra dell’artista da giovane.
Da allora sono successe tante cose: altre mostre, tanti viaggi, amicizie, amore e con la nascita di suo figlio (un po’ per necessità e un po’ per scelta) Paolo Colombo mette da parte la sua vocazione e inizia con successo una nuova carriera: quella di curatore e direttore di musei. Dal MaXXI di Roma al Modern Art Museum di Istanbul, dalla Pinacoteca Agnelli alla cura di padiglioni per la Biennale di Venezia, fino agli anni al Centre d’Art Contemporain di Ginevra, dove dal 1990 al 2001 mette in scena mostre rimaste nella storia dell’istituzione e dove ora è tornato a proporre una sua retrospettiva curata da Andrea Bellini: circa quaranta opere realizzate tra il 1971 e il 2024 (fino al 9 febbraio 2025).
C’era già stato nel 1978 nella sua altra veste, chiamato da Adelina von Fürstenberg a esporre poesie e carte nella vecchia sede del Centre da lei fondato e diretto. Per questo ora la mostra si intitola «La deuxième fois» (La seconda volta) anche se in quel «deux» potremmo leggere anche altre cose: il «pas de deux» di poesia e pittura; la compresenza di opere della prima e della seconda fase della vita artistica di Paolo Colombo; l’uso in poesia sia dell’italiano sia dell’inglese.
«La notte le cieche di Atene rammendano e parlano di angeli» è uno tra i molti bellissimi versi che appare in una tavola della mostra. Un’evocazione che rimanda alle parche, ai gesti arcaici, alle fiabe contadine, dove i sentieri si biforcano e persino le cieche possono rammendare. Esempio perfetto di poesia che per l’artista si compie quando si uniscono immagine e canzone. Un verso, quindi, che sappia contenere l’immagine in sé stesso e che nella sua trasposizione in dipinto non diventi mai illustrazione, ma fusione con la pratica del pittore che gli regala una realtà visiva. Quello che vediamo in queste sale è la costruzione di un mondo intimo e universale, un approccio antico all’esistenza che ritorna nelle carte dove affiorano volti di donne o gesti resi frammento che rimandano a mosaici, nei ricami su tele lasciate libere, nelle bacheche (in certo senso vere e proprie opere), dove sono disposti dallo stesso artista elementi disparati che si relazionano tra loro: telegrammi in braille, cestini greci in plastica colorata rosa o verde menta, un vecchio vinile con una canzone popolare, libri di riferimento sciupati dall’uso, appunti scritti a macchina, corrispondenze... E lo si vede ancor meglio nella sala cinema che proietta il suo «Stone Theatre», una serie di brevi video di un minuto o poco più, dove pietre dalle strane forme antropomorfe modellate dal mare diventano attori e protagonisti di un teatro minimale, reso possibile anche qui, come gli acquerelli, da una radicale economia di mezzi.
L’unico lusso che Paolo Colombo ostenta in questi suoi anni di lavoro è il tempo. Il tempo che va lasciato al pensiero, al meditativo comporre che richiede riempire un foglio di 200mila minuscoli puntini a matita, il tempo eterno a cui rimandano queste opere che evocano mosaici bizantini e spiagge mediterranee, il tempo che trasforma le pietre e che la nostra contemporaneità sta divorando e ci sta sottraendo, mentre invece è necessario difenderlo nella contemplazione, nella suggestione di un verso o di una soffusa antica immagine che arriva da un acquarello o da un ricamo. Come questa mostra insegna.