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Micaela Deiana
Leggi i suoi articoliUn gatto a tre zampe è claudicante, ma questo non basta a impedirgli di esplorare, e, nel farlo, sono sicura avrebbe la cura dell’intero quartiere di Beyoglu, dove si concentrano le otto sedi di questa 18ma Biennale di Istanbul (fino al 23 novembre). Tutte a non oltre i venti minuti di cammino l’una dall’altra, per rispondere alla dichiarata volontà di facilitare il percorso del visitatore. Alcune di queste sono una vecchia conoscenza del frequentatore della Biennale (come la Galata Greek School o la French Orphanage) altre sono una nuova scoperta, come l’Elhamra Han, per entrare nella quale bisogna attraversare un piccolo centro commerciale.
Ogni gatto, si sa, ha nove vite, non teme per sé, pronto a correre di nuovo anche dopo una caduta dal terzo piano, e con le sue fusa produce onde a bassa frequenza che si dice aiutino la guarigione delle ossa degli umani.
Così anche questa biennale non teme di affrontare tematiche dolorose o pericolose, e lo fa con una certa cura per chi ne attraversa le sale. La politica internazionale, lo sfruttamento ambientale, il colonialismo, la fragilità sociale, il corpo che rivendica il proprio spazio sono i temi che si leggono fra gli strati della mostra. Eppure, tutto questo che consuma quotidianamente l’animo di chi non si aliena dal mondo nonostante l’angoscia del presente, in questa Biennale viene in qualche modo affrontato con positività, forse quella di chi, davanti al disastro che ci circonda, non può che reagire.
Sui 47 artisti scelti dalla curatrice libanese Christine Tohmé per questo primo appuntamento di una Biennale che diventa eccezionalmente triennale, sono diversi gli artisti provenienti dal Mediterraneo orientale, area tragicamente calda negli ultimi due anni. Tutti affrontano apertamente la realtà vissuta dalla propria comunità. Mona Benyamin, palestinese, lo fa attingendo al registro dell’umorismo nero e del grottesco, in una parodia del telegiornale che, in fin dei conti, purtroppo non appare più surreale delle news a cui assistiamo impotenti ogni giorno nella vita reale. Sohail Salem, da Gaza, ricostruisce il genocidio in corso con disegni su carta che costruiscono un archivio quotidiano non filtrato dai media. I lavori pittorici di Ali Eyal sublimano attraverso un immaginario simbolico le sue memorie di infanzia al tempo dell’invasione dell’Iraq, avvenuta poco più di vent’anni fa.

L’installazione di Ana Alenso. Photo: Sahir Ugur Eren

L’installazione di Elif Saydam. Photo: Sahir Ugur Eren
Molti degli artisti di origini arabe presenti in mostra oggi non vivono più nelle proprie terre, in una diaspora che li vede spesso residenti in Paesi occidentali. Un processo di dislocazione e memoria che viene ben raccontato dalla libanese Stéphanie Saadé, che con la serie «Pyramid» stratifica vestiti di diverse taglie, dalla più grande alla più piccola: la scultura tessile è insieme estremamente intima e disturbante nel restituire una percezione tattile del tempo che passa attraverso l’utilizzo di un oggetto così personale.
Il tema dell’intimità e del corpo è presente anche nei lavori di Akram Zaatari, con le piccole pitture datate al periodo della pandemia di Covid-19, che raccontano il mondo dell’oil wrestling (antico sport praticato in Turchia, Iran e nei Balcani) che nella performance della mascolinità aprono la narrazione all’omoerotismo. Il queer (ricordiamo che la comunità Lgbtqia+ è attualmente sottoposta a repressione in Turchia) è un elemento centrale anche dell’installazione di Elif Saydam, un ambiente che unisce vernacolarismo e gusto per l’ornamento in un labirinto composto da fogli di plastica sospesi che mescolano elementi decorativi della cultura alta e bassa.
È proprio fra le pieghe della cosiddetta cultura bassa che fermenta la vitalità della società. Anche della parte più reietta, come ci racconta «Pacific Club» di Valentin Noujaïm, con cui torniamo alla Parigi degli anni Ottanta nella discoteca del distretto La Défense, dove gli immigrati arabi e i nordafricani si riunivano per aggrapparsi a un senso di comunità a ritmo di R&B e raï, musica folk algerina. Ritroviamo la danza, questa volta legata al credo religioso, al centro di «The longest Sleep», film di Rafik Greiss che ritrae i rituali del mawlid, anniversario celebrativo dei santi sufi che hanno servito come mediatori con il Divino, offrendo uno sguardo che si concentra sulla dimensione neurologica della devozione, del mondo in cui attraverso respiro, movimento e ripetizione si possono raggiungere stati alterati di coscienza. Respiro, movimento e ripetizione sono anche i principi della pratica yoga, che Jasleen Kaur pone al centro del suo «My Body is a Temple of Gloom» dove, però, vuole porre l’accento sulla commercializzazione di questa pratica sacra, sempre più banalizzata nel processo di appropriazione da parte della cultura occidentale, che spesso ne propone una versione estetizzata, che ha più a che fare con la performatività che con la ricerca di un equilibrio fra mente e corpo. Difficile non parlare di colonialismo anche in una storia come questa, di tradizioni secolari saccheggiate e fagocitate da un onnipresente orizzonte liberal-consumista.

L’installazione di Ola Hassanain. Phoyo: Sahir Ugur Eren

L’installazione di Rafik Greiss. Photo: Sahir Ugur Eren
Dal corpo umano a quello della Natura, un tema che ricorre attraverso tutte le sedi espositive, e con riferimenti geografici tristemente globali, è quello dello sfruttamento selvaggio delle risorse ambientali e di come questo si intrecci, appunto, a politiche coloniali, del passato e attuali. Ola Hassanain articola il suo sguardo a partire dalla crisi dell’agricoltura e dal controllo delle acque in Sudan, Jagdeep Raina dal fallimento della Rivoluzione Verde di Punjab, Ana Alenso dalle estrazioni minerarie in Venezuela, Naomi Rincón-Gallardo dallo sfaldamento delle coesioni sociali e sull’acuirsi dei conflitti generati dallo sfruttamento delle miniere a Oaxaca. Al di là del registro scelto (pop nel giocare con l’elemento mitologico nei video di Rincón-Gallardo, poetico nel caso di Hassanain che incorpora le memorie dell’infanzia in un’installazione ambientale, o di Raina, nei cui affascinanti ricami troviamo la dolcezza della nenia e la forza della protesta) comune è l’intento di attirare l’attenzione sulla violenza che si perpetua laddove è l’economia a guidare la società.
Nel percorso qui tracciato sembrerebbe svanita ogni speranza. Eppure, la curatela di Christine Thomé ha saputo armonizzare e sublimare anche l’amarezza del reale.
L’installazione sonora di Ayman Zedani si apre con una voce che recita «Ha guardato nell’infinità dell’oceano e si è augurato di poter capire tutte le preghiere cantate dai pesci», citando l’episodio biblico (e coranico) del profeta Giona e la balena.
In questo infinito oceano, non siamo poi così distanti. A tutte le latitudini assistiamo a un mondo al collasso sotto l’irresponsabile corsa capitalistica che sta bruciando il nostro pianeta e la nostra capacità di essere umani. Questa mostra rivendica come l’arte possa, e debba, scegliere di non voltare la testa davanti allo sconquasso che stiamo attraversando e, al tempo stesso, possa lasciarci col cuore aperto, senza che il nostro sguardo si chiuda appesantito dal cinismo.