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«Barqueiro azul em Manaus», 1992

Crédito: Luiz Braga

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«Barqueiro azul em Manaus», 1992

Crédito: Luiz Braga

L’altra metà dell’Amazzonia: intervista con Luiz Braga

Incontriamo Luiz Braga, uno dei più grandi fotografi brasiliani viventi, nelle ultime fasi dell'allestimento della sua mostra «Arquipélago Imaginário», in mostra fino al 31 agosto all'Istituto Moreira Salles di São Paulo, che ne omaggia i cinquant'anni di carriera

Festeggia idealmente 50 anni di carriera, Luiz Braga (1956): «idealmente» perché, in realtà, il fotografo bambino sviluppava i primi negativi in un studio amatoriale montato nella cantina della propria casa. Da allora di «acqua sotto i ponti» ne é passata, anche perché il fiume Guamá, che lambisce Belém (capitale dello stato del Pará, ndr), il suo paesaggio naturale, sociale e le sue relative trasformazioni, sono stati il soggetto principale e prediletto nella sua lunga e poetica carriera. Tra le altre partecipazioni, infatti, Braga è stato anche co-protagonista del Padiglione Brasiliano alla Biennale di Venezia del 2009, insieme all'artista Delson Uchôa. 

«Avrei voluto intitolare questa mostra «Costellazioni», ma visto che nel 2022 si era tenuta «Constelação Clarice», dedicata a Clarice Lispector, abbiamo optato (con i curatori Bitu Cassundé e Maria Luiza Menezes, ndr) per «Arquipélago Imaginário». Penso sia anche migliore, d'altronde la parola arcipelago si relaziona meglio al luogo dal quale arrivo, fatto di isole, acqua, terra, insenature, fiumi, foreste...», ci racconta Braga durante l'ultima fase di allestimento della sua mostra, all'Istituto Moreira Salles (IMS) di San Paolo: due piani di esposizione per un totale di 258 fotografie di cui 190 inedite, divise in nove nuclei senza seguire un ordine cronologico, retrospettivo, ma solo «confluenze» tematiche. 

E andiamo subito al dunque: da sempre, Luiz Braga, lavora portando alla luce un'altra Amazzonia, lontanissima dalle immagini in stile National Geographic, dall'idea di «inferno verde» o di «Eldorado della vita», come lui stesso definisce la visione stereotipata della foresta agli occhi dei turisti. Lontanissimo, anche, dalle fotografie di colleghi che hanno mostrato al mondo una foresta adattata all'immaginario gringo, mentre il paesaggio amazzonico di Braga é vivo e pulsante; è incrocio di modernità e tradizione e, soprattutto, come più volte ribadisce il fotografo nel corso della nostra conversazione, è un vero omaggio alle sue popolazioni, ai lavoratori, alla vita quotidiana, ai rapporti umani e ai «piccoli fatti» che costruiscono la cultura di un territorio.

«Questa è la prima serie [«Mapa do Éden, ndr]» in cui la foresta entra nelle mie fotografie: è merito di un filtro a infrarossi che rende l'immagine un po' sgranata, tendente al verde», racconta Braga davanti alle immagini «Nettuno», 2020, e «Banho Marajoara», 2013, puntualizzando: «Ho forzato la tecnologia; questa modalità di ripresa, infatti, è per essere utilizzata completamente al buio, mentre io ho scattato di giorno: una vera e propria epifania, ed è la prima volta che espongo in simultanea tutte queste immagini, per questo abbiamo scelto di dare loro un luogo un po' isolato dal resto della mostra, più intimo».

«Casa de farinha», 2019. Crédito: Luiz Braga

Da qui, «Arquipélago Imaginário» si dipana dentro quello che Braga definisce un «paesaggio umano» che mostra un Brasile che, da sempre, è rimasto a lato dei riflettori, culla di culture profonde e quasi intoccate, così come di questioni sociali che hanno tutto a che vedere con l'attualità, come la splendida immagine di un uomo venezuelano affaccendato con un carico di banane nel porto di Manaus, scappato dal proprio Paese: «Potrei essere considerato un fotoreport, ma non è mai stata quella la mia aspirazione. Piuttosto, ho sempre costruito le mie immagini pensandole come dei dipinti, anche perché a Belém, negli anni della mia infanzia e della mia adolescenza, non esisteva nessun tipo di informazione sulla fotografia: sai dove prendevo spunto? Dalle immagini dell'Enciclopedia Britannica e dai volumi dedicati ai musei del mondo che comprava mio padre da uno dei commessi viaggiatori che all'epoca attraversavano tutto il Brasile. In quelle pagine scoprivo Botticelli, Rembrant, Caravaggio, Renoir, la Galleria degli Uffizi, il Prado...In più, quando cominciai ufficialmente l'attività, dopo la facoltà di architettura, in tutta la città non esisteva un solo laboratorio che sviluppasse a colori, e per questo il bianco e nero è stata la mia prima scelta, obbligata, anche se poi è ritornato alternativamente nella mia produzione a partire dalla metà degli anni '80». 

Sarti, macellai, barbieri, bambini sorridenti, uomini dalla sensualità strabordante, estinti fotografi di strada, l'incredibile processione del Cirio de Nazaré, festa che ogni seconda domenica di ottobre avvolge l'intera città di Belém, e ancora interni di bar, case, pareti, tendaggi, negozi, barche, marinai, donne di casa e anche una lunga serie di letreiros, le splendide iscrizioni sui muri, al neon o su placche che, ancora oggi, vengono utilizzate in particolar modo nel Nord del Brasile per segnalare attività professionali o per pubblicizzare prodotti: sono questi alcuni dei temi ricorrenti e dei personaggi che si incontrano nell'«altra Amazzonia» di Braga, che ancora oggi continua con la minore post-produzione possibile delle proprie immagini, «Giusto una tonalizzazione, perché risultino il più simile possibile a quella che sarebbe la stampa da negativo», e con un formato che non superi di tanto i 70 x 100 centimetri, il limite che nell'epoca analogica Braga si poteva permettere di sviluppare, utilizzando gli ingranditori a disposizione. 

«Oggi come oggi questo formato mi interessa perché mantiene una dimensione umana, si rapporta perfettamente alla vita quotidiana e alle sue storie che da sempre sono la mia ossessione. Avrei potuto costruire la mia carriera utilizzando la scia dei ritratti ufficiali che mi sono stati commissionati da governatori, milionari e celebrità, ma sono il punctum e lo studium teorizzati da Roland Barthes che si incontrano nelle scene ordinarie che mi attraggono».

«Netuno II», 2020. Crédito: Luiz Braga

Oltre a questo, ci sono state anche altre numerose scelte fuori dall'ordinario che hanno caratterizzato la carriera di Braga: nel 1980, per esempio, il fotografo mise in scena una mostra nella discoteca Signo’s Club di Belém, che funzionava come galleria durante il giorno mentre, la notte, le immagini esposte assumevano tutt'altro contorno grazie alle luci strobo dell'ambiente: «Fu assolutamente incredibile. Immagina, nell'epoca della dittatura militare esporre fotografie di nudi, frontali, in uno spazio aperto al pubblico. Se fosse stato a San Paolo o a Rio sarebbe stata pubblicata sulla Folha o su Veja, ma a Belém non solo non ebbe copertura mediatica, ma nemmeno censura. Nella pista principale avevo montato un piccolo studio, e omaggiavo i visitatori scattando loro una polaroid e offrendola come ricordo; un mio amico realizzò anche una colonna sonora per l'occasione; sono molto affezionato a questa esperienza perché identificava realmente un anticonformismo, lo stesso che a mio avviso segna, cinquant'anni dopo, «Arquipélago Imaginário». 

Di fatto, la mostra all'IMS è decisamente differente: per i colori vivi che accompagnano le varie sezioni, «Io sono contro il beige, il colore di chi non sa scegliere il colore, e contro il white cube, come è il Padiglione del Brasile a Venezia, per esempio», continua Braga, vulcanico. E poi, per un allestimento che rimette all'attraversamento di un paesaggio o delle stanze di una ipotetica grande casa; infine, per l'utilizzo di una serie di «finestre» che si aprono su una sezione e sull'altra, dimostrando chiaramente un'altra caratteristica della fotografia di Braga: la fluidità

«Detesto le didascalie. Un giorno arriverò a toglierle dalle mie mostre [ride, ndr]. Per quanto mi riguarda non importa dove e quando sia stata scattata un'immagine, è una nozione che non aggiunge nulla alla sua comprensione, tutt'al più serve a un curatore o a un giornalista, ma la fotografia vive in una dimensione temporale di presente continuo. È chiaro che riuscirai a connotarla temporalmente a causa dei vestiti, della pettinatura o degli strumenti di lavoro usati, ma questo passaggio fa parte del nostro effetto del tempo, non di quello che vive nell'immagine»

Lontanissimo dalla postura dello «street photographer», Luiz Braga ha fatto dei suoi «scatti rubati» una autentica poesia, come accade nell'immagine delle due sorelle colte di spalle, «Duas irmãs com tijolo na romaria», 1995, caricando un mattone sulla testa durante una processione «Per chiedere aiuto per avere la propria casa. Questa è una delle mie fotografie preferite in assoluto. L'ho realizzata con una hasselblad con la quale non era certo un gioco da ragazzi mettere a fuoco, camminando tra la folla»

Nella maggior parte delle occasioni, però, Braga crea con i suoi soggetti un rapporto di familiarità, tornando e ritornando negli stessi luoghi, per acquisire finalmente quello sguardo lucido che permetta di scattare l'essenziale, l'importante, il «vero». 

«Duas irmãs com tijolo na romaria», 1995. Crédito: Luiz Braga

«La costruzione di questa mostra, per la quale ho invitato i curatori a passare un tempo a Belém, per mostrare loro l'ambiente dove la mia fotografia è nata e si è sviluppata e, in seguito, per rovistare nell'archivio per trovare la quadra dell'arcipelago, riflette molto anche la mia passione per la pratica dell'osservare da lontano, direi quasi dello spiare: quando ero bambino la nostra casa si trovava alla fine del corteo del Círio e, quando la processione terminava, amavo mettermi alla finestra e indugiare sul disperdesi della folla, i gruppi disfacendosi, le ultime conversazioni, la fine dell'avventura e il ritorno alla vita di sempre».

Da tempo, uno dei posti preferiti di Braga è l'isola fluviale di Marajó, famosa per le sue colonie di bufali, a qualche ora di navigazione da Belém: «Ci sono luoghi che ti chiamano. Non sai precisamente perché, ma sai che devi andare. Mi è successo con il Maranhão, terra di tradizioni incredibili, e con il villaggio di Apeú Salvador, lungo la costa del Pará, una località di pescatori remota, composta di case in legno e strade di sabbia, a cui sono arrivato dopo una traversata avventurosa, notturna, in uno scenario cinematografico dove il cielo scurissimo delle quattro del mattino ha lasciato posto, poco dopo, a una delle aurore più belle mai viste nella mia vita. Ed è curioso perché a volte, del progetto che hai in mente alla partenza, non resta assolutamente nulla al ritorno: i soggetti, le inquadrature, i colori, tutto cambia nel corso del viaggio». 

Andando per fiumi e per terra, in queste cinque decadi di lavoro Braga ha organizzato un archivio che consta di qualcosa come 500mila negativi e migliaia di immagini stampate che, a volte, sono rimaste immagazzinate in attesa di «fare pace» con l'autore. «Non ho mai cestinato un lavoro, ma ogni fotografia ha la propria storia: quella del marinaio blu a Manaus, [«Barqueiro azul em Manaus», 1992, ndr] il mio amuleto porta-fortuna negli ultimi tempi, è stata nascosta per 12 anni prima di vedere la luce. Ne esistono due versioni: nella prima, avevo fatto mettere l'uomo sotto un neon giallo, e mi era piaciuto immediatamente il risultato, il colore dorato della pelle; la seconda versione, sotto il neon blu, ha necessitato di tempo per essere accettata dal mio sguardo».

«Luiz Braga», 2025, ph. Maria Luiza Menezes

E a proposito di volti, tornando ad «Arquipélago Imaginário», è splendido il corridoio della sezione  «Ritratto Antiritratto»: qui, alle pareti, disposte a «spina di pesce», una serie di scatti in bianco e nero diversissimi per anno e composizione, ma che mantengono due caratteristiche fondamentali: ci guardano negli occhi o ci danno le spalle, a seconda del nostro senso di percorrenza. Un gioco sottile, che ancora una volta sottolinea quanto il dettaglio, il punctum, infine, nella fotografia di Braga faccia tutta la differenza del mondo. 

«Nella mia traiettoria è accaduto spesso che le fotografie migliori siano state scattate in momenti imperfetti: nelle attese, nelle preparazioni delle fanfare o delle processioni, come molte volte è accaduto a Marajó», racconta Braga, che continua a produrre il proprio lavoro senza sovvenzioni, vendendo le sue stesse immagini con l'aiuto delle gallerie Leme (São Paolo) e Gávea (Rio de Janeiro): «Dopo la Biennale di Venezia sono passato a una tiratura di cinque, mentre prima erano venticinque, ma tutto quello che ricavo dal mio lavoro lo reinvesto per altro lavoro. Con la vendita di un progetto di NFT, ad esempio, ho potuto comprare una piccola casa a Marajó, che come ti dicevo è stato il mio soggetto prediletto negli ultimi anni».

Infine, potrebbe essere Braga un fotografo la cui veritiera attitudine è quella di un antropologo visuale? L'ultimo aneddoto è rivelatore: «La foto di questo ventilatore con lo sfondo rosso, sai da dove arriva? Ero nell'Amapá, mi avevano invitato per documentare una tradizionale festa quilombola dove i cristiani battagliano contro i mori. Scattai 1500 immagini: ho scelto solo questa». 

Un solo, comunissimo, splendido, ventilatore.

Matteo Bergamini, 26 aprile 2025 | © Riproduzione riservata

L’altra metà dell’Amazzonia: intervista con Luiz Braga | Matteo Bergamini

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