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Silvestro Lega, «Le bambine che fanno le signore», 1872, collezione privata

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Silvestro Lega, «Le bambine che fanno le signore», 1872, collezione privata

L’eterno gioco dell’arte è in scena a Carrara

A Palazzo Cucchiari una mostra esplora l’inscindibile legame tra arte e svago nel periodo compreso tra la corrente realista e le due guerre: «Tra nostalgie del paradiso perduto e voglia di evasione, si fa strada nelle poetiche degli artisti il rimpianto per la condizione dell’infanzia, l’età dell’innocenza, come dovrebbe essere l’età dei giochi», spiega il curatore Massimo Bertozzi

Inseritosi a pieno titolo nei circuiti espositivi nazionali ed internazionali, Palazzo Cucchiari, sontuosa residenza ottocentesca progettata da Leandro Caselli, si appresta a celebrare il primo decennale di attività. Sede della Fondazione Giorgio Conti, istituita dalle sorelle Franca e Daniela per celebrare la memoria del padre, ha al suo attivo una serie di mostre che a partire dal 2015 lo hanno riconsegnato alla città dopo un attento restauro filologico divenendo un luogo d’affezione e punto di riferimento per progetti espostivi dedicati alla cultura figurativa del XIX e XX secolo. 

Estimatore di scultura e appassionato cultore di arte contemporanea, Massimo Bertozzi, per oltre vent’anni curatore degli spazi espositivi del Palazzo Ducale di Massa e direttore dal 2016 del civico Museo Guadagnucci, ha seguito la direzione culturale di Palazzo Cucchiari sin dalla sua nascita promuovendo, grazie alla rete di rapporti instaurati con prestigiose istituzioni museali, numerose collaborazioni che gli hanno consentito di allestire rassegne di indubbio valore scientifico. 

Il 28 giugno a Palazzo Cucchiari si è inaugurata «In gioco. Illusione e divertimento nell’arte italiana 1860-1940». Può spiegarci com’è nata l’idea di questa mostra e il motivo che si cela dietro la scelta di prendere in esame tale preciso periodo cronologico? 
Un anno fa, durante l’allestimento della mostra «Belle Époque»: collocando «I figli del popolo» di Gioacchino Toma, con i bambini che giocano «ai garibaldini», abbiamo pensato che sarebbe stato bello costruire, per il decimo anniversario di Palazzo Cucchiari, una mostra «divagante e divertente» sul gioco; dal giorno dopo abbiamo cominciato a lavorarci. Il periodo di riferimento è stato dettato in parte dall’argomento, perché con la modernizzazione cambia l’idea stessa dello svago e del divertimento, per via dell’industrializzazione del giocattolo, della spettacolarizzazione dell’intrattenimento, della diffusione dello sport e dell’istituzionalizzazione del gioco d’azzardo; per altro verso si vuole anche fare riferimento al riemergere di una vocazione nazionale dell’arte italiana e al suo difficile riposizionamento sulla scena internazionale.

Questa mostra in quale rapporto si pone con «La scuola carrarese all’Ermitage: Canova e i maestri del marmo» che nel 2015 segnò l’inizio della nuova vita di Palazzo Cucchiari?
Banalmente si potrebbe dire che tutto è in conseguenza di quello che c’è stato prima, ma «La scuola carrarese» approfitta di un proficuo rapporto di collaborazione, in atto dagli anni Novanta del secolo scorso, tra le istituzioni locali e il Museo Ermitage di San Pietroburgo, cosa che ha certamente facilitato l’esordio. La mostra odierna è piuttosto frutto del percorso virtuoso che la Fondazione Conti e Palazzo Cucchiari hanno compiuto in questi anni, facendo tesoro delle occasioni di confronto e collaborazione con decine e decine di prestigiose istituzioni artistiche italiane, e poi con l’eccellenza degli operatori privati, collezionisti, galleristi, fondazioni e archivi, accumulando così esperienze, che hanno permesso di correggere i difetti e di rimediare agli imprevisti.

Plino Nomellini, «Scena familiare», 1912 ca. Courtesy Galleria d’Arte Goldoni, Livorno

Può illustrarci l’ordinamento delle diverse sezioni attraverso le quali si articola il percorso espositivo?
Le sezioni sono quattro: la prima, legata alla tradizione, fa riferimento alle occasioni di svago e di divertimento d’ogni giorno. Il gioco è una cosa di tutti, in ogni senso popolare; almeno così la pensano i pittori italiani quando cominciano a guardare la realtà della vita di tutti i giorni: le scene della pittura di genere si popolano così di pacifici giocatori di carte come di più sguaiate manifestazioni pubbliche, tombole in piazza, balli paesani e feste campestri, com’è nella «Pineta di Moses Levy» o nella «Scena danzante» di Nomellini, e quindi di ogni altra attività di svago o di ricreazione, all’aperto e legata alla tradizione; così come per altro verso si popolano di bambini che rincorrono il cerchio o di bambine che giocano con la bambola, e poi di piacevoli letture, come quella di Maria, figlia del pittore Sottocornola, e ombrose conversazioni in giardino, che ben presto sfociano nella moda delle passeggiate al parco, come nel «Rencontre à bicyclette» di Zandomeneghi, o di gite in carrozza lungo i viali delle rimembranze, cui allude la «Carrozzella» di Carlo Carrà. Ma il gioco è un connotato dell’età dell’infanzia, e a questo è dedicata la seconda sezione della mostra, per quanto in realtà per un bambino il gioco è sempre un ingresso anticipato nel mondo dei grandi. I bambini agiscono come «robivecchi dell’umanità»: qualunque cosa scartata dagli adulti può diventare un giocattolo, rigenerato a nuova vita dalla fantasia, che gli conferisce una nuova dimensione. «Le bambine che fanno le signore», nel dipinto di Lega, i giocattoli del piccolo «Cesare Lionello» di Casorati, il «Ragazzo ai burattini» di Giuseppe Gorni, così come le «Bambine», pronte a giocare col cerchio, di Campigli, stanno svolgendo una funzione vitale, per la loro crescita, così che anche per gli artisti quello dei giochi si propone come un universo fantasioso, uno stimolo all’immaginazione e all’attività creativa. Il «mondo in miniatura» dei bambini è in effetti un mondo a parte, proprio come quello delle immagini che baluginano nell’occhio smagato degli artisti. Così che tra nostalgie del paradiso perduto e voglia di evasione, si fa strada nelle poetiche degli artisti il rimpianto per la condizione dell’infanzia, l’età dell’innocenza, come dovrebbe essere l’età dei giochi. All’invenzione del tempo libero e quindi a quella di nuove forme di sospensione della realtà, è dedicata la terza sezione della mostra, che ruota intorno al gioco di abilità e all’esibizione spettacolare. La società moderna istituzionalizza vecchie forme di intrattenimento, i giochi di strada, come quelli del «Baraccone da fiera» di Capogrossi e gli spettacoli circensi, come nei «Circhi» di Renato Natali o Ligabue, e diffonde le rappresentazioni dal vivo, dalla commedia dell’arte al teatro classico, com’è il caso della «Serenata alla luna» di Afro o del «Pagliaccino» di Primo Conti, con la mondanizzazione della musica che, da camera e da salotto che era, diventa da tabarin e Café chantant, e rimettendo in gran voga il «mondo all’incontrario» del Carnevale, come quello di Viareggio prodotto da Lorenzo Viani. Il tempo libero, nella società moderna, non può restare tempo «perso» e va trasformato in tempo socialmente utile e produttivo, e a questo sviluppo del divertimento è dedicata la quarta sezione «Sfide, competizione, destino». Così che ben presto sarà il gioco stesso a trasformarsi in una forma di spettacolo, con lo sviluppo di ogni genere di sport e la legalizzazione delle lotterie e dei casinò. Il culto della velocità, le «auto futuriste» di Mario Sironi e Iras Baldessari, il brivido dell’azzardo, com’è nella «Partita a carte» di Rosai o in quella ai dadi di Alberto Martini, così come il fenomeno nuovo dell’eroismo sportivo, qui raccontato dalle sculture, dal «Nuotatore» di Marini al «Pugile» di Messina, dall’«Acrobata cinese» di Minguzzi al «Guidatore di Sulky» di Farpi Vignoli, fanno dello sport e delle scommesse uno dei connotati dell’Italia novecentesca, a portata di mano degli artisti, che attraverso la lente deformante delle avanguardie o ingessati nei rigori formali del ritorno all’ordine, ricavano dal mondo del gioco il loro specifico giudizio, di apprezzamento o di critica, della qualità della vita. 

Lei afferma che il gioco, tema largamente rappresentato nella pittura di ogni epoca, è quasi sempre connesso a richiami allegorici, vedi le implicazioni etiche dei giocatori di Caravaggio o l’allusione al ruolo sociale dei giocatori nella pittura francese del Settecento. Solo nel XIX secolo l’attenzione degli artisti si concentra sulla sua funzione di svago o pausa dai «quotidiani affanni» che molto democraticamente riguarda tutti: aristocratici e contadini, preti e militari, donne e bambini. Che cosa accade con l’avvento del nuovo secolo?
Con il nuovo secolo il gioco viene istituzionalizzato, nel senso che il tempo libero viene riconosciuto come tempo socialmente utile e giocare non è più tempo perso, purché lo si faccia nei luoghi giusti, seguendo le regole e ovviamente pagando il biglietto. Il gioco perde spontaneità al punto che per gli artisti diventa sempre meno attrattivo e stimolante. Basterà pensare alla progressiva scomparsa delle attività circensi e degli spettacoli di strada, così cari agli artisti, alla perdita di qualunque mistero del mondo del luna park, alla banalizzazione degli avvenimenti sportivi o anche all’esasperata mercificazione dello spettacolo, per cui è proibito fotografare o riprendere qualunque rappresentazione teatrale: viene da considerare che in queste condizioni non solo non avremmo mai avuto le ballerine di Degas, ma neppure i luna park di Moses Levy o Lorenzo Viani, gli Arlecchini di Murer o di Severini, i saltimbanchi di Mosè Bianchi o di Capogrossi. 

Elisabetta Matteucci, 12 luglio 2025 | © Riproduzione riservata

L’eterno gioco dell’arte è in scena a Carrara | Elisabetta Matteucci

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