«Max Ernst, Paris» (1936) di Josef Breitenbach (particolare)

Cortesia della Würth Collection. © The Josef and Yaye Breitenbach Charitable Foundation

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«Max Ernst, Paris» (1936) di Josef Breitenbach (particolare)

Cortesia della Würth Collection. © The Josef and Yaye Breitenbach Charitable Foundation

Max Ernst tra fotomontaggio, rielaborazione e contaminazione

Per il centenario del Surrealismo il Museum für Fotografie di Berlino indaga sull’artista che «usò strategicamente la fotografia per promuovere la propria agenda artistica» 

Se c’è un aggettivo che non si addice all’arte onirica e contorta di Max Ernst (Brühl, Germania, 1891-Parigi, 1976), pittore, scultore, incisore e poeta, nonché pioniere del Dada e del Surrealismo, è «fotografica». Sì perché, nonostante la fotografia odierna e, in particolare, quella generata dall’Intelligenza Artificiale (IA), suggeriscano il contrario, il medium fotografico nacque per catturare la «realtà» in tutta la sua verosimiglianza, divenendo documento di fatti, luoghi e persone esistiti in un determinato posto a una determinata ora, e non di mondi immaginari. Quella della fotografia però fu un’evoluzione incalzante che, già all’alba del ’900, con l’avvento del suo ramo documentaristico e la diffusione delle tecniche di riproduzione fotografica, vide la disciplina porre le basi per la sua esistenza contemporanea, inspirando tra i tanti, anche lo stesso Ernst. 

In visione nel Museum für Fotografie di Berlino fino al 27 aprile 2025, «Fotogaga. Max Ernst and Photography» ne svela il legame con la fotografia. All’interno della mostra, realizzata in occasione del centenario dalla nascita del Surrealismo, prestiti provenienti dalla Collezione Würth, tra cui anche il collotipo «Light wheel» (1926) e il fotogramma «... the one completely limited to them, the one isolated from the rest of the world» (1936) di Ernst, incontrano lavori di artisti dell’epoca per dimostrarne la contaminazione reciproca di idee, stili ed espedienti creativi. Sebbene Ernst non si sia mai rifatto a una fotocamera, sono tanti i ritratti che hanno tracciato la sua evoluzione, come quello realizzato dal fotografo surrealista Josef Breitenbach nel 1936, parte di questa esposizione. «A tratti seri, a tratti un po’ “gaga”, questi ritratti illustrano non soltanto l’amore dell’artista per la giocosità ma anche il suo utilizzo strategico della fotografia per promuovere la sua agenda artistica», spiegano gli organizzatori. 

È da qui, o meglio, da una serie di collage creati da Ernst e il connazionale Hans Arp, «Fatagaga: FAbrication de TAbleaux GAsométriques GArantis» (fabbricazione di immagini gasometriche garantite), che la mostra prende il suo nome, celebrando al contempo le amicizie nate dalla curiosità del genio surrealista nei confronti del linguaggio fotografico. Tra le opere, fotomontaggi e rielaborazioni fotografiche raccolte dalla Kunstbibliothek, il Kupferstichkabinett, la Sammlung Scharf-Gerstenberg, la Staatsbibliothek zu Berlin, e altre collezioni pubbliche e private in Francia e Germania. In dialogo con la produzione dell’artista tedesco, immagini mirabolanti come «Schwarz/Černoch» (1949) del fotografo ceco Emila Medková, raffigurante una creatura fantastica da lui «riconosciuta» tra le pieghe di una superficie urbana e completata con un occhio, esemplificano come, anche Ernst, utilizzò la fotografia per sfidare la realtà e spingere il confine tra sogno e veglia, evocandone lo spirito libero e innovativo. 

«L’usignolo cinese» (1920) di Max Ernst

Gilda Bruno, 03 dicembre 2024 | © Riproduzione riservata

Max Ernst tra fotomontaggio, rielaborazione e contaminazione | Gilda Bruno

Max Ernst tra fotomontaggio, rielaborazione e contaminazione | Gilda Bruno