Quest’autunno Londra ha il grande privilegio di ospitare due mostre indimenticabili: l’Impressionismo alla Courtauld Gallery con «Monet e Londra: vedute del Tamigi» e il Postimpressionismo con «Van Gogh: poeti e amanti» alla National Gallery. Le due rassegne hanno molto, ma non troppo, in comune terminando entrambe il 19 gennaio 2025. Come si desume dai titoli, sono monografiche e si concentrano su periodi piuttosto limitati delle carriere dei loro eroi. Fortunatamente, solo una breve passeggiata separa le due gallerie e quindi si può facilmente godere delle due mostre in un’unica giornata, passando la mattina con la prima e il pomeriggio con la seconda, con o senza una pinta di birra e un sandwich in mezzo.
Claude Monet conosceva Londra grazie a un primo soggiorno nel 1870, quando era in fuga dalla guerra franco-prussiana, e aveva sognato di ritornarci per dipingere il Tamigi già negli anni ’80. Dovette però aspettare quasi fino alla fine del decennio successivo per realizzare il suo progetto. Finalmente, nel settembre 1899, soggiornò per tutto il mese all’Hotel Savoy, tornandoci poi per ben due volte, da gennaio a marzo del 1900 e dalla fine di gennaio ai primi di aprile del 1901, per dipingere le vedute del Tamigi celebrate nella mostra alla Courtauld, a 300 metri dal suo albergo di lusso. Monet ha eseguito quasi un centinaio di dipinti, ma nel 1904, quando si organizzò la mostra nella Galerie Durand-Ruel a Parigi dal titolo «Serie di vedute del Tamigi a Londra», la selezione era circoscritta a 37 quadri. La rassegna alla Courtauld è ancora più piccola, con 21 dipinti (tre da collezioni private), di cui solo uno non faceva parte della mostra parigina, perché fu terminato l’anno dopo.
L’immenso vantaggio delle camere occupate da Monet al sesto o quinto piano dell’Hotel Savoy è che erano provviste di balconi da cui si potevano ammirare dall’alto vedute e panoramiche del Tamigi, degli edifici sulle sue due rive e dei ponti che le collegano. In un certo senso, le possibilità erano quasi infinite, ma forse, proprio per questo motivo, Monet si è limitato a tre soggetti, il ponte di Charing Cross, il ponte di Waterloo e il Palazzo del Parlamento, che non si stancava mai di immortalare, soprattutto sotto la tipica nebbia di allora, prodotta dalla polvere di carbone, domestica e industriale (in modo appropriato, uno dei tre eccellenti saggi nel catalogo della mostra si intitola «Painting Pollution»). Data la qualità delle opere, l’unico rischio sarebbe stato una certa uniformità, ma al contrario molte volte, in particolare con la rappresentazione dei ponti, è l’etichetta, e non tanto i nostri occhi, ad aiutarci a identificare che cosa viene rappresentato nell’opera.
La mostra alla National Gallery si limita agli ultimi due anni di vita di Vincent van Gogh, quando cercava rifugio nel Sud della Francia. Da febbraio 1888 fino a maggio 1889 stava ad Arles, per poi trasferirsi per un anno presso la clinica di Saint-Rémy, prima del suo ritorno definitivo al Nord nel maggio del 1890. A quel punto, la sua destinazione fu Auvers-sur-Oise nei sobborghi di Parigi, per essere vicino al suo medico, Paul Gachet, e al fratello, Theo. Ma è a Auvers che il tentativo di suicidio, il 27 luglio 1890, lo condusse due giorni dopo alla morte. Tra dipinti e disegni, la mostra vanta una sessantina di opere, che per un artista non sono molte. Ma siccome si tratta di Vincent, come amava firmare i suoi quadri, rappresentano un vero trionfo e sono allestite in sei ariose e spaziose sale. Invece di raccogliere una semplice antologia dei migliori successi durante i suoi anni finali, l’ambizione dei curatori è stata di presentare una nuova visione dell’artista. Era già noto il suo voler creare «l’arte del futuro», ma qui l’artista emerge dalle loro ricerche come più colto nei suoi rapporti con la letteratura e con la musica. Ovviamente, i suoi colori e le sue pennellate rimangono intensi e appassionati come sempre, ma si capisce che l’autore leggeva scrittori come Alphonse Daudet e ascoltava concerti di Wagner. Ad Arles, nella sua fantasia vede il giardino antistante la sua residenza, la Casa gialla, come un giardino di poeti, e in una lettera al fratello Theo lo sogna abitato da «Botticelli, Giotto, Petrarca, Dante e Boccaccio». Il suo metodo artistico sa combinare l’osservazione iniziale del motivo o del paesaggio con impulsi nati nella sua immaginazione che nello studio gli permettono di andare oltre i limiti del realismo. Comunque sia, per un semplice visitatore il merito fondamentale di questa mostra, che è poi il merito di ogni mostra riuscita, è introdurci agli originali di opere che non abbiamo mai avuto modo di vedere, non solo perché provengono da collezioni private, ma molte volte invece perché si nascondono in luoghi che non abbiamo mai visitato.
Sarebbe bello fare un pellegrinaggio al Kröller-Müller Museum a Otterlo, dove si trovano 90 dipinti e 180 disegni di Van Gogh, ma nel frattempo sono felice che per alcuni mesi non meno di sei dei suoi quadri più belli siano esposti a Trafalgar Square. Ancora meglio, come con Monet alla Courtauld, possiamo confrontare variazioni su uno stesso tema e in particolare le due tele con «L’Arlésienne», il ritratto di Madame Ginoux, una da una collezione privata e l’altra dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, che risultano quasi identiche e nello stesso tempo completamente differenti. Ancora meglio, è stato possibile ricostruire un trittico che Van Gogh aveva concepito: ne esiste un suo schizzo per la Casa gialla con «La Berceuse» (1889) del Museum of Fine Arts di Boston tra le due versioni dei «Girasoli» (quella della National Gallery e quella del Philadelphia Museum of Art del 1889).