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Una veduta della mostra «Gladiatori nell’Arena. Tra Colosseo e Ludus Magnus», Roma, Colosseo, 2023

© Parco archeologico del Colosseo

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Una veduta della mostra «Gladiatori nell’Arena. Tra Colosseo e Ludus Magnus», Roma, Colosseo, 2023

© Parco archeologico del Colosseo

Morire nell’anfiteatro più grande del mondo

In una mostra al Colosseo reperti archeologici a tema gladiatorio e una proiezione olografica che illustra il criptoportico di connessione tra l’anfiteatro flavio e l’adiacente Ludus Magnus

Guglielmo Gigliotti

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Il Colosseo è un gigante di pietra dalle molte anime. Una di queste era la vita dei tanti gladiatori, il cui destino è stato, per oltre quattro secoli, morire proprio nell’anfiteatro più grande del mondo. Nei suoi sotterranei, sorta di monumentali recessi ombrosi, definiti da grandi blocchi in travertino, ha aperto il 21 luglio, con durata fino al 7 gennaio, la mostra «Gladiatori nell’Arena. Tra Colosseo e Ludus Magnus».

Ideata da Federica Rinaldi (responsabile del monumento flavio), insieme con Alfonsina Russo (direttore del Parco Archeologico del Colosseo), Barbara Nazzaro e Silvano Mattesini, la mostra possiede due volti, come un Giano bifronte: uno rivolto al passato, e l’altro al futuro. Il primo è costituito dai reperti archeologici a tema gladiatorio, il secondo da una proiezione olografica che illustra il criptoportico di connessione tra l’anfiteatro flavio e l’adiacente Ludus Magnus, un Colosseo in miniatura (con capienza di 3mila posti), dove gli atleti (spesso schiavi, prigionieri o criminali) si allenavano prima dello scontro frontale e, spesso, fatale.

Lunga 30 metri (in origine 80, ma in parte distrutti a fine ’800 da lavori per un collettore fognario) questa galleria, pavimentata con opera spicata e avvolta da lastre di travertino, non è al momento ancora praticabile, ma grazie a raffinata tecnologia (adottata con buon gusto), immaginabile. Tra i reperti, allestiti nella prosecuzione del criptoportico verso l’arena, spiccano due grandi elmi figurati in bronzo del I secolo d.C., funzionali alla lotta, ma concepiti come opere d’arte. Trovati a Pompei e prestati dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli, illustrano in bassorilievo articolati omaggi alla dea Roma o un albero di palma, sovrastato da un grifone.

Dal Museo Archeologico Nazionale di Aquileia arriva invece la stele funeraria del gladiatore Quintus Sossius Albus, mentre dalla collezione dello stesso Parco del Colosseo proviene il rilievo funerario in marmo raffigurante due gladiatori in combattimento. Lo stesso soggetto lo si vede graffito, con mano meno esperta, nel II-III secolo, da uno spettatore proprio su un frammento di un gradino della cavea dell’anfiteatro romano: un vivace documento della passione di tutte le classi sociali della romanità (dal popolo agli imperatori) per questo «sport» crudele. Esso aveva regole prestabilite ed era strutturato secondo specifiche categorie di combattenti, ciascuna con un suo armamentario, come chiaramente mostrato dalle ricostruzioni filologiche realizzate dall’artigiano Silvano Mattesini.

Guglielmo Gigliotti, 21 luglio 2023 | © Riproduzione riservata

Morire nell’anfiteatro più grande del mondo | Guglielmo Gigliotti

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